Al villaggio probabilmente in quei
giorni stavano celebrando le feste per il nuovo anno. Dunque era ormai
trascorso un altro anno. Quanti ne erano passati? Apa Pafnunzio stentava a ritenerne
il computo. Ne erano passati così tanti… Un nuovo anno e quanti altri ancora? O
forse sarebbe stato l’ultimo?
Quando, giovane, aveva intrapreso il
cammino nel deserto, prima sotto la guida di apa Giovanni, poi da solo, anche
se in compagnia degli altri sei compagni della laura, l’aveva sognato come una
corsa verso la perfezione, un progressivo ascendere di vetta in vetta. Se l’immaginava
così la perfezione, una salita inarrestabile, che lo avrebbe condotto di
conquista in conquista.
Ora che l’anno stava terminando e
forse la vita, si accorse che progrediva, sì, ma nella consapevolezza della
propria fragilità. Si ritrovava a mani vuote. Peggio ancora, colme di vuoti e
di peccati. Dove stava dunque la perfezione a cui tanto aveva agognato? Non si
era forse lasciato ingannare dal modello dei filosofi stoici o da quello degli eroi
greci di cui si cantavano le gesta sublimi? Ma che avevano a che fare quello
con il Vangelo che ruminava di giorno in giorno? Quanto diverso il compimento del
cammino del Cristo, finito su una croce a gridare straziato il dolore del mondo.
Eppure era proprio quella la perfezione del Cristo, l’aver riconosciuto a
creduto all’amore di Dio in quella lontananza da lui e nel suo abbandono.
Apa Pafnunzio cominciava finalmente a
comprendere che gli anni di cammino nel deserto lo avevano condotto davvero lontano
da dove s’era immaginato di giungere. Si stavano rivelando un lento
apprendistato ad assumere le proprie debolezze, i propri fallimenti e le
proprie cadute per conoscervi alfine, propri in questo, la misericordia di Dio.
Qui e non altrove stava la perfezione a lungo cercata, nel conoscere la propria
imperfezione e proprio qui riconoscere la presenza e l’amore di Dio. Oramai apa
Pafnunzio lo sapeva: non si sarebbe mai salvato, ne era incapace. La perfezione
consisteva nell’essere salvato.