martedì 30 aprile 2024

Il mese di maggio... con i barboni

Il nostro “carissimo e instancabile” p. Luigi Vitulano continua a mandarci stralci dei codici storici delle nostre comunità oblate italiane. In quello di Ripalimosani, in data 1° maggio 1942, si legge: “La sera del 30 il carissimo e instancabile P. Abramo dà inizio al mese di Maggio nella nostra Chiesa come negli anni precedenti grande entusiasmo da parte del buon popolo ripese. La mattina funzione per le contadine alle 5.30, per il popolo alle 7: molte Comunioni”.

A 10 anni di distanza, il 30 aprile 1951: “Inizio del mese di maggio. Predica il R. P. Abramo. Novità: un quadro della Madonna di Pompei visiterà ogni giorno una famiglia di Ripa. Il paese è stato diviso in 12 quartieri (in tutto 300 famiglie iscritte). Ogni sera si tira a sorte la famiglia dove la sera stessa si recherà il quadro e il quartiere da cui l’indomani sarà tirata a sorte una famiglia (tutto il quartiere si prepara…). Ogni mattina si porterà la Comunione ai malati che la desiderano”.

Inizia il mese di maggio… Una volta era atteso e sentito: un canto a Maria!

Io l’ho iniziato questa sera in via della Conciliazione, davanti all’editrice Ancora: una “lectio divina” rivolta ai senza fissa dimora che dormono sotto il colonnato di san Pietro e nei dintorni… Gente in gamba: Dio li conosce tutti, uno per uno, per nome, ognuno con la sua storia… Adesso anch'io ne conosco qualcuno per nome.

Il padrone di casa, che dorme davanti al cancello dell'editrice, ha preparato l'alterino con le immagini sacre, i lumini... E' lui che dà la sveglia a tutti la mattina presto, prima che passi la polizia. "Io - mi dice uno di loro - gli rispondo con una bestemmia, ma guarda che anche una bestemmia è un atto di fede, per me è un'invocazione...". 

Poi la preghiera, il mio discorsetto ascoltato in religioso silenzio, la condivisine in piccoli gruppi, i canti... e infine la festa, con la torta per due compleanni.

Il mese mariano non poteva cominciare meglio...





lunedì 29 aprile 2024

Alle Tre Fontane dalle Piccole Sorelle di Gesù

Siamo alla quarta tappa. Visita alla casa generalizia delle Piccole Sorelle di Gesù nel terreno che Piccola sorella Magdeleine riceve dai monaci Trappisti nel 1957: tante piccole costruzioni in legno, un minuscolo villaggio. Ci guida suor Paola Francesca.

Anche Paolo VI venne a trovare la Piccola sorella il 28 settembre 1973 «Perché sono venuto?», si chiese il Papa: «la risposta è molto facile: per conoscervi. Per conoscere voi, questo centro, la vostra ormai grande famiglia. Anche se vi conosco già da molti anni… Anche se silenziose e in un certo senso invisibili, la Chiesa vi vede, vi vuol bene, vi ama e vi benedice. In nome di quel Gesù che voi amate io vi dico: avete scelto bene! Come Maria, avete scelto la parte migliore. Siate fedeli e felici». Il 22 dicembre 1985 fu la volta di Giovanni Paolo II. 

Che avventura la storia di Magdeleine Hutin. La prima guerra mondiale la priva di tutta la famiglia. Le rimane la mamma che porta con sé in Algeria, sulle orme di Charles de Foucauld, I primi 2 anni vivono ad Algeri in pieno quartiere arabo. La prima fraternità è in una piccola oasi algerina, Touggourt, tra poche centinaia di nomadi musulmani. Li chiama co-fondatori! Infatti oltre a chiedere loro consiglio nei dettagli pratici, rilegge con loro il testo delle Costituzioni.

Dopo aver dato vita alle “fraternità”, la notte di Natale del 1949, a 10 anni dalla fondazione, si dimette come responsabile generale per poter percorrere il mondo alla ricerca delle popolazioni più isolate e delle piccole minoranze, intraprendendo viaggi per seminare ovunque scintille d’amore e di tenerezza: piccole fraternità per vivere CON loro, nelle stesse condizioni di vita di chi ci circonda (abitazione, lavoro, …), condividendo le gioie e le difficoltà di ogni giorno. «Come Gesù, durante la sua vita umana, fatti tutta a tutti: araba in mezzo agli arabi, nomade in mezzo ai nomadi, operaia in mezzo gli operai… ma prima di tutto umana in mezzo agli esseri umani (…) non metterti ai margini della massa umana» (1952).

L’atteggiamento profondo e caratteristico di piccola sorella Magdeleine è riconoscere la dignità di ogni persona, costruendo ponti di umanità attraverso popoli e culture diversi: “Sarò felice soltanto quando avrò trovato sulla superficie della terra la tribù più incompresa, l’uomo più povero, per dirgli: “il Signore Gesù è tuo fratello e ti ha innalzato fino a lui… e vengo a te perché tu accetti di essere mio fratello e mio amico” (alle piccole sorelle 13 febbraio 1951). “Ci può essere una vera amicizia, un affetto profondo tra persone che non appartengono né alla stessa religione, né alla stessa razza, né allo stesso ambiente” (alle piccole sorelle 12 dicembre 1951).

Forte di questa esperienza non esita a ‘seminare’ le piccole sorelle nelle piccole entità dei popoli indigeni in Brasile o in Australia, come nelle fabbriche, nei circhi, in mezzo ai nomadi sotto le tende nel deserto, come nei carrozzoni dei Rom, negli ambienti più chiusi come quelli della prostituzione… senza opere specifiche di apostolato, ma con le caratteristiche della vita contemplativa.

Il suo sogno: testimoniare l’amore infinito di Dio, la tenerezza del Dio-Bimbo fragile tra le nostre mani; portare questo messaggio a chi è più lontano, a chi si trova ai margini perché considerato poco importante o addirittura non-desiderato.

L’immagine della scintilla che è capace di provocare un grande incendio, le era cara ed usava proporla per esprimere la forza contagiosa dell’Amore:

Vorrei amare tutti gli esseri umani del mondo intero…vorrei mettere una scintilla d’amore in ogni angolo del mondo: in Egitto, in Brasile, presto in Giappone…una scintilla provoca incendi di boschi in Provenza. perché non dovrebbe accendere fuochi nel mondo intero? (a p. R. Voillaume 21 ottobre 1947)

Usava riassumere il suo sogno con una parola UNITÀ: “Se mi si chiedesse di definire in una sola parola la missione della Fraternità, non esiterei un minuto a gridare: Unità, perché l’unità riassume tutto” (alle piccole sorelle, 8 dicembre 1962).

Scriveva alle piccole sorelle: “Continuiamo ad amarci così come siamo, di tutti i paesi, di tutte le razze, con bontà e benevolenza, nonostante le nostre lacune e i nostri difetti. In questo mondo in cui c’è tanto odio, dobbiamo essere unite come un blocco incandescente d’amore… Continuiamo a testimoniare che piccole sorelle africane, americane, asiatiche, europee, dell’Oceania, orientali… che piccole sorelle d’ambiente operaio e d’ambiente borghese…possono amarsi con un grande amore, pur essendo lucide sul male del loro paese e del loro ambiente d’origine” (20 ottobre 1974).

 

domenica 28 aprile 2024

La famiglia oblata: troppo bella!

 

Che testimonianza, questi laici oblati! Un convegno di tre giorni con 200 persone che condividono il carisma, provenienti da tutta Italia. Detto così suona come suona. Ma quando arrivi e ti trovi davanti persone che conosci da anni, rimaste fedeli alla chiamata, che partecipano alle missioni al popolo, che spendono le ferie nei Paesi di missione, che danno vita a mille iniziative per portare avanti i progetti comuni…

Ma è qualcosa di più. È che ci conosciamo da sempre! Ci siamo incontrati in Sicilia, in Calabria, a Roma, in Toscana, nel Veneto… Tante volte… Siamo a stati a casa degli uni, degli altri e loro a casa nostra… Non so come dirlo, ma ci sentiamo famiglia! Senza retorica. Al ritrovarci esplode la gioia… siamo noi! Ci sono anche i giovani: anche con loro ci conosciamo! I bambini… e impariamo a conoscerli. La famiglia oblata: troppo bella!




sabato 27 aprile 2024

L'artigianato di Gesù poco ispiratore...

È di una ricchezza straordinaria il Vangelo di oggi: la vite e i tralci. Eppure invece di una riflessione spirituale mi sorge una domanda di poco conto.

Le parabole e gli esempi di Gesù riguardano i pescatori, i pastori, i contadini, i muratori, i mercanti, i giudici, le massaie…

In Matteo Gesù è designato come "figlio del falegname". In Marco invece lo si dice direttamente come "falegname", è un lavoratore in prima persona, non soltanto figlio di un lavoratore. Ma sappiamo che la parola usata dagli evangelisti è tekton, a indicare una persona che lavora il legno, il ferro, la pietra… Perché allora Gesù non racconta parabole o non porta esempi tratti dal suo mondo dell’artigianato, così vario e ricco? Eppure si presterebbe, come negli scritti dell’Antico Testamento o nelle stesse lettere di Paolo. Il suo mestiere non gli ha offerto nessuno spunto per una delle sue riflessioni? Oppure gli artigiani non erano tra i suoi ascoltatori?

Anche l’immagine del Vangelo di oggi è presa dai vignaioli (nella nuova versione della CEI, seguendo il criterio della semplificazione del linguaggio, il Padre non è più un vignaiolo, ma un generico agricoltore). L’immagine di un incastro o quello di una saldatura – di cui Gesù doveva essere pratico – non avrebbero certamente reso.

Al di là dei miei interrogativi puerile, questa domenica converrà soffermarsi sulla reciproca immanenza: “Rimanete in me e io in voi…”. Va al cuore della realtà, ben al di là di una similitudine.

venerdì 26 aprile 2024

Un posto in cielo

Nel Vangelo di oggi Gesù ci ha detto che nella casa del Padre ci sono molte dimore. Saranno come le casette a schiera o le celle dei certosini, tutte uguali?

Ho letto in una lettera di santa Caterina da Siena che anche se tutte le virtù sono espressione della medesima della carità, “ognuno ne ha una che prevale sulle altre. Da ciò le diversità di vita”. I santi hanno vissuto tutti la carità, ma in modi diversi: “non ce n'è uno che assomigli all'altro. C'è la stessa diversità fra gli angeli, che non sono tutti uguali”. E conclude che “una delle gioie dell'anima nella vita eterna è anche vedere la grandezza di Dio nella varietà della ricompensa che dà ai suoi santi”.

Così passeremo l’eternità ad andare a trovare le anime sante e resteremo meravigliati della diversità di ogni loro abitazione, una più bella dell’altra…

Chissà come sarà la mia. Intanto so che Gesù è andato a prepararla e che si è fatto Via perché possa arrivare a dimorare in essa.

 

giovedì 25 aprile 2024

Una famiglia carismatica

 

Nel 2014 venne a trovarmi p. Isidoro Murciego, Trinitario, con il quale anni prima avevo lavorato per l’Associazione dell’Unione dei Membri delle Curie Generalizie. Da poco era stato nominato responsabile dell’associazione dei laici e degli Istituti religiosi legati ai Trinitari. “Perché, mi disse, non raduniamo alcuni quelli che nelle Curie generalizie sono incaricati di seguire i laici? Potremo così scambiarci le esperienze, i progetti…” Io, gli risposi: “Sono alla casa generalizia, ma non sono un membro del consiglio generale e da noi non c’è un consigliere incaricato espressamente dei laici”. “Ma tu, mi disse, sei un focolarino e quindi sai costruire unità tra persone tanto diverse. Bontà sua!”

Cominciarono così, nella nostra casa generalizia, gli incontri con alcuni di questi incaricati dei laici. Prima una ventina, poi una trentina… E perché non chiamare anche le suore che hanno esperienze analoghe? Dopo due anni eravamo così tanti che non c’era più posto a casa nostra. Andammo dai Fratelli delle Scuola Cristiane e alla prima riunione eravamo già 200. E perché non chiamare anche i laici interessati?

P. Isidoro Murciego insisteva nel chiamare “Famiglia spirituale” le diverse “galassie” attorno al carisma. Io dicevo: Meglio parlare di “Famiglia carismatica”. Di lì a poco esce la lettera del Papa per l’Anno della Vita consacrata e parla di “Famiglie carismatiche”. Chissà chi ha suggerito al Papa questa parola…

Pensare a una famiglia carismatica oblata ci permette di pensare in grande, senza steccati, senza gerarchie. Anche nel mondo oblato ci sono tanti gruppi di laici, altri laici che non sono associati attraverso strutture organizzative e che pure si sentono parte della famiglia. Dovremmo permettere a tutti di sentirsi a casa. Non possiamo poi dimenticare che fanno parte della famiglia anche membri di Istituti di vita consacrata, come le COMI, le OMMI… Dobbiamo avere un respiro largo.

Le modalità di vivere e condividere il carisma devono rimanere ampie, aperte, altrimenti direbbe Papa Francesco, riprendendo le sue parole di Evangelii gaudium, nasce «un gruppo esclusivo, un gruppo di élite».

Questa apertura non è soltanto all’interno della famiglia carismatica, ma è molto più ampia, tra le diverse famiglie carismatiche, un’autentica comunione tra carismi diversi e quindi, tra l’altro, tra gruppi laicali diversi, ispirare da carismi diversi.

Mi sembra importante quello che il Papa raccomanda al riguardo, sempre nella Lettera d’indizione per l’anno della vita consacrata: «Mi aspetto che cresca la comunione tra i membri dei diversi Istituti. Non potrebbe essere quest’Anno l’occasione per uscire con maggior coraggio dai confini del proprio Istituto per elaborare insieme, a livello locale e globale, progetti comuni di formazione, di evangelizzazione, di interventi sociali? In questo modo potrà essere offerta più efficacemente una reale testimonianza profetica. La comunione e l’incontro fra differenti carismi e vocazioni è un cammino di speranza. Nessuno costruisce il futuro isolandosi, né solo con le proprie forze, ma riconoscendosi nella verità di una comunione che sempre si apre all’incontro, al dialogo, all’ascolto, all’aiuto reciproco e ci preserva dalla malattia dell’autoreferenzialità».

Il marchio oblato è identitario, ma non escludente. Pensiamo alla felice esperienza che abbiamo ormai da moltissimi anni, delle missioni al popolo organizzare dagli Oblati e capaci di coinvolgere attivamente persone di altri carismi. Oppure pensiamo al rapporto importate c’è stato e che c’è con i laici del Movimento dei Focolari. Tutto questo non ha mortificato, ma potenziato la nostra esperienza e la nostra identità, così come i membri degli altri gruppi.

Ci sono persone del laicato oblato che hanno lavorato e lavorano con altre espressioni carismatiche, dall’Azione cattolica alla San Vincenzo, dai gruppi di preghiera di Padre Pio al Rinnovamento nello Spirito. Io spero che non si pongano degli aut aut, ma dei et et, per giungere – come afferma il Papa – a “una comunione che sempre si apre all’incontro, al dialogo, all’ascolto, all’aiuto reciproco e ci preserva dalla malattia dell’autoreferenzialità”. In una società così frazionata e con problemi giganteschi, cosa facciamo da soli? Perché invece di tanti partitini gelosi e fazioni, non potenziamo il fronte comune?

Alcuni pensieri che vorrei comunicare sabato al Congresso dei laici Oblati iniziato questa sera a Sassone.

mercoledì 24 aprile 2024

San Marco a Roma

 

La basilica di san Marco? Quella di Venezia fu costruita soltanto nell’828. La basilica di san Marco è quella di Roma! costruita da Papa Marco nel 336. A Roma non ci lasciamo mancare niente...

Nei sotterranei si trovano ancora i muri perimetrali dell'originaria basilica paleocristiana sorta probabilmente sopra una preesistente casa romana. Dell’antico romanico rimangono i mosaici dell’abside di Gregorio IV (827-844) raffiguranti Cristo con S. Marco papa, Marco evangelista e Gregorio IV (col nimbo quadrato dei personaggi viventi) che offre il modello della chiesa e naturalmente il campanile del 1154.

Sembra fosse il luogo dove san Marco ha dimorato a Roma… Comunque a Roma c’è stato avvero. Era Marco per il mondo greco-romano, mentre i suoi connazionali lo chiamavano Giovanni, in ebraico. La prima e l’unica apparizione nei vangeli sembra essere quella sul monte degli ulivi, dove Giovanni Marco era andato con Gesù dopo l’ultima cena e dove si era addormentato nella casetta del piccolo podere. Svegliato dal trambusto delle guardie venute a catturare Gesù, si buttò addosso il lenzuolo e andò a vedere. Un soldato lo agguantò, “ma egli, lasciato il lenzuolo, fuggì via nudo”. O forse, come ci ha insegnato Giacomo Perego, quel giovinetto è il simbolo dello spogliamento totale richiesto al discepolo per poter seguire
Gesù? La mamma, Maria, aveva messo la casa in Gerusalemme a disposizione della prima comunità di Gerusalemme e ne divenne la chiesa domestica.

Discepolo e segretario di Pietro, che svolgeva la sua attività tra gli ebrei (erano circa 45.000), Marco gli faceva da interprete, perché Pietro non parla il greco o non lo sapeva molto bene. Clemente Alessandrino, attorno al 200, precisa che Marco compone il suo vangelo a Roma, annotando i racconti di Pietro. Così anche Papia, ma nel Vangelo di Marco si avverte anche una grande presenza di Paolo.

25 aprile. Come al solito sarà polemica politica. Intanto Marco è qui e fa dire a un pagano, un romano, il centurione, la professione di fede conclusiva del suo Vangelo: “Questi era davvero il figlio di Dio…”.

 

martedì 23 aprile 2024

Siamo nelle mano di Dio

“In che mani mi sono messo…” - Esclamazione di quando ci accorgiamo che ci siamo fidati delle persone sbagliate.

“Sono in buone mani” - Esclamazione di quando ci sentiamo con persone sicure.

“Siamo nelle mani di Dio” - Espressione che di solito indica che non c’è più niente da fare e che si potrebbe tradurre con: “Purtroppo non si può fare diversamente, allora ci rassegniamo”. Potremmo invece dire: “Che fortuna che siamo nelle mani di Dio, dove meglio si può stare?”.

Ci ho ripensato questa mattina quando nel vangelo ho sentito Gesù che diceva delle sue pecore: “Nessuno le strapperà dalla mia mano… nessuno può strapparle dalla mano del Padre". Che bello stare nelle mani di Dio, dove stare più sicuri?

 

lunedì 22 aprile 2024

Con san Domenico a San Sisto Vecchio

 

San Sisto era una basilica del V secolo, sorta su una villa romana, fuori delle Mura Serviane, in prossimità della Porta Capena da cui partivano le vie Latina e Appia. Abbandonata, fu ripristinata da Innocenzo III. Onorio III il 4 dicembre 1219 ne fa dono a Domenico, con lo scopo di fondarvi un monastero per la riforma delle monache di Roma. Domenico e i suoi frati ne prendono possesso il 27 dicembre.

È la quarta tappa del nostro pellegrinaggio per “fondatori a Roma”…

La creazione del monastero femminile fu possibile soprattutto grazie al trasferimento, il 28 febbraio 1221, di una quarantina di Suore provenienti dal vicino monastero di S. Maria in Tempulo alle quali Domenico consentí di portare nella nuova sede l’icona  della Madonna acheropita (in seguito denominata “Madonna di S. Sisto”), alla quale le suore tributavano una grande venerazione.

E dov’era questo monastero di S. Maria in Tempulo? Ne rimane un casolare a lato della Passeggiata Archeologica, oggi usato dal comune di Roma per celebrare i matrimoni civili. Così abbiamo ripercorso il breve cammino di Domenico e delle monache spendendo mezza mattinata, tante sono le “distrazioni” di questi luoghi antichi ricchi di storia.

Al convento di San Sisto abbiamo riletto alcuni ricordi che ci ha lasciato suor Cecilia, che al tempo di Domenico aveva 16 anni.

«Il padre Domenico — racconta la suora — consacrava il giorno a conquistare le anime predicando e ascoltando le confessioni o dedicandosi a qualche altra opera di misericordia. Ma la se­ra si portava dalle sue suore e, alla presenza dei frati, teneva loro un’istruzione o un sermone per ammaestrarle sulla na­tura dell’Ordine; perché esse non avevano altri che le potesse formare alla vita dell’Ordine».

Un aneddoto – sempre narrato da sr. Cecilia – illustra il rapporto che s’era stabilito. «Giunse una sera più tardi del solito; per cui le suore, pensando che ormai non sarebbe più arri­vato, avevano smesso di pregare e si erano recate in dormito­rio. Ma ecco che improvvisamente i frati suonano la campa­nella che serviva per adunare le suore quando giungeva il beato padre. A quel richiamo tutte le suore ritornarono prontamente in chiesa, si aprì la grata, e lo trovarono già seduto con i suoi frati ad attenderle... Egli fece allora una lunga istruzione mostrandosi molto consolato. Dopo questa conversazione disse: Sarebbe bene, figlioli, prendere qualche cosa di fresco. E chiamato fra Ruggero, il cellerario, gli ordinò di portare del vino e un boccale. Il frate portò quanto gli era stato richiesto e il beato Domenico gli ordinò di riem­pire il boccale fino all’orlo. Poi lo benedisse, ne bevve per primo e dopo lui tutti i frati presenti... Quando i frati ebbero bevuto, il beato Domenico disse: Voglio che anche tutte le mie figlie bevano. E chiamata suor Nubia soggiunse: Va’ anche tu, prendi il boccale e dà da bere a tutte le sorelle. Quella andò insieme a un’altra suora e riportò il boccale colmo fino ai bordi. E benché fosse così pieno non se ne versò nemmeno una goccia. Tutte le suore bevvero dunque, a cominciare dalla priora, poi via via le altre quanto ne vol­lero. E il beato padre ripeteva loro spesso: Bevete a vostro piacimento, figliole!».

Suor Cecilia ha lasciato anche la famosa, unica, descrizione dell’aspetto fisico di S. Domenico: «Il Beato Domenico aveva questo aspetto: era di media statura ed esile di corpo; aveva un bel viso e la carnagione un tantino rosea; i capelli e la barba tendevano al rosso; gli occhi erano belli.


 Dalla sua fronte e di fra le ciglia irradiava un cer­to splendore che a tutti ispirava rispetto e simpatia. Rimane­va sempre sereno e sorridente, tranne quando era addolorato per qualche angustia del prossimo. Aveva lunghe e belle ma­ni ed una voce forte ed armoniosa. Non fu mai calvo, ma aveva la corona della rasura tutta intera, cosparsa di qualche capello bianco».

 


domenica 21 aprile 2024

Sono nudo

 

“Ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto”.

Povero Adamo, si ritrova nudo, al pari di Eva. Segno di fragilità, povertà. Ha perso tutto, si ritrova a terra, con niente, ha bisogno di protezione, di difesa, di sostegno…

Quante volte anche noi ci ritroviamo in questo stato di prostrazione, di inadeguatezza, di debolezza, di bisogno… nudi.

“Il Signore Dio fece all'uomo e a sua moglie tuniche di pelli e li vestì”.

Che gesto pieno di attenzione, di misericordia. Dio che si fa sarto per proteggere, riscaldare, sollevare dall’indigenza… per fare sentire la sua vicinanza.

Copre anche le nostre nudità…

sabato 20 aprile 2024

Nel nome di Gesù

 

Domenica scorsa mi sono sbagliato – normale – è ho anticipato il Vangelo di oggi, quello del buon Pastore:

https://fabiociardi.blogspot.com/2024/04/non-siamo-un-branco-di-pecore.html

Allora questa volta mi lascio conquistare da una parola della prima lettura. Pietro deve rispondere per spiegare come ha fatto a guarire il paralitico. Semplice: “Nel nome di Gesù Cristo il Nazareno”.

Basta il suo nome: Gesù! Non è già una preghiera? Soltanto chiamarlo: Gesù!

Il nome di Dio, nel mondo ebraico, non poteva essere pronunciato. Ora poiché Dio è sceso sulla terra, s’è fatto uomo, lo si può chiamare per nome. Il nome dice la persona, la sua identità: Gesù è ciò che dice il suo nome: “Dio che salva”. Lo proclama l’apostolo Pietro in questo momento, subito dopo la resurrezione: «non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati» (Atti 4, 12).

Paolo nella Lettera ai Filippesi parla della Resurrezione di Gesù come della sua esaltazione da parte del Padre, espressa proprio dal dono del nome, «il nome che è al di sopra di ogni nome»: Gesù. Gesù, il Dio che salva, è la sua vera identità. Per questo «nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: “Gesù Cristo è Signore!”, a gloria di Dio Padre» (2, 9-10).

Nell’Oriente cristiano, fin dai primi secoli, è fiorita la tradizione della “preghiera del Nome”, la ripetizione costante del nome di Gesù. Anche in Occidente, a partire dal tardo Medioevo, si sviluppa la spiritualità del Nome di Gesù. San Bernardino sceglie le tre prime lettere greche del nome di Gesù, IHS, per disegnare le tavole con le quali parla di Gesù. L’ha messo su tutte le case.

Basta il suo nome: Gesù! Non è già una preghiera? Soltanto l’invocazione: Gesù!


venerdì 19 aprile 2024

P. Michel Coquelet, martire nel Laos

20 aprile del 1961. Due giorni dopo il martirio di p. Louis, ecco il martirio di p. Michel Coquelet, anche lui proclamato beato!

Era nato il 18 agosto 1931 nel nord della Francia. Nel 1945 entrò nel seminario minore di Solesmes e nel 1948 iniziò nel noviziato dei Missionari Oblati di Maria Immacolata. Ordinato sacerdote il 19 febbraio 1956, dopo il servizio militare ai confini del Sahara, il 25 febbraio 1957 ricevette il foglio di obbedienza per il Laos.

I quattro anni di vita missionaria di p. Michel nel Laos sono stati una dura prova. Per ammissione degli stessi superiori, il villaggio al quale fu assegnato era molto povero, composto da neofiti che non avevano potuto seguire le catechesi in modo regolare. Le sue riflessioni su questo argomento, annotate nel diario della missione, danno un’idea delle dimensioni delle sue sofferenze come missionario, ma anche del suo spirito di fede, colorato da un umorismo che era uno dei tratti accattivanti del suo carattere. Visse con la gente, semplicemente; facendosi tutto a tutti…

Il 20 aprile del 1961, mentre stava compiendo un viaggio a Ban Houay Nhèn, giunsero i soldati per arrestarlo, insieme al capo del villaggio cristiano e al suo segretario. Condotti sul sentiero verso Ban Sop Xieng furono uccisi sul bordo della strada.

Il 1° ottobre 1956 aveva scritto al Superiore generale:

Reverendo e amatissimo Padre,

“Alla fine degli studi, ogni Oblato si metterà a disposizione del Superiore generale”. Dopo aver letto e riletto su quest’articolo delle nostre Sante Regole prendo la penna per scrivervi non una “richiesta” di obbedienza secondo il mio estro, ma l’offerta di me stesso al servizio del Signore della Messe, nel campo che vorrete indicarmi.

Così, mi sarei limitato volentieri a ripetervi la vecchia formula: “Eccomi, manda me!”. Temo, però, che questa indifferenza possa sembrarvi una mancanza di entusiasmo per i diversi ministeri della Congregazione. D’altra parte, so anche che volete conoscere le aspirazioni messe dal Signore nel nostro cuore e, soprattutto, che inviate in Missione solo i volontari.

Allora vi dico semplicemente: sono volontario per la Missione, specialmente per quella del Laos! Nutro questo desiderio fin dal noviziato, dove mi ricordo di essere stato molto colpito da una conferenza di padre Morin, morto laggiù di tifo. Si sprigionava da questo padre un non so che di soprannaturale. Parlava, poi, della sua “povera missione”, proprio nella linea della Congregazione, con un tono tale che mi sono sentito pronto a seguirlo. Facile entusiasmo giovanile? Forse. Tuttavia, doveva esserci dell’altro, perché la cosa persiste dopo sette anni e questo pensiero mi ha aiutato nella mia vita di lavoro e di preghiera allo scolasticato.

Le affido questi pensieri con umiltà, felice di rimettermi alla vostra decisione, poiché sarebbe per me difficile – essendo ognuno cattivo giudice della sua causa – capire cosa viene dalla natura e cosa dalla Grazia. Ora chiedo al Signore nella preghiera la grazia di essere pronto ad accettare la vostra decisione, qualunque essa sia, conforme o no alle mie aspirazioni, per la sola ragione di obbedire al suo beneplacito.

giovedì 18 aprile 2024

P. Louis Leroy martire nel Laos

Oggi abbiamo ricordato l’anniversario del martirio di p. Louis Leroy (1923-1961). Primogenito di 4 figli, dopo la scuola elementare, lavorò in famiglia come contadino. Di ritorno dal servizio militare, all’età di 22 anni, si decise per gli Oblati di Maria Immacolata. Dopo un periodo di recupero scolastico a Pontmain, frequentò i sei anni di filosofia e teologia a Solignac.

Al termine scrisse al Superiore generale: “Prima di conoscere gli Oblati ero attratto dalle missioni in Asia. Per queste missioni volevo abbandonare il mio lavoro in campagna... Le difficoltà sperimentate dalla missione del Laos e quelle che forse sperimenterà ancora non hanno fatto che aumentare il mio desiderio per questo paese... Se giudicate opportuno inviarmi nel Laos, riceverò con grande gioia la mia obbedienza...”. Ad alcuni suoi compagni confidò la speranza di morire martire.

Fu missionario nel Laos per sei anni. Alla fine del 1957 raggiunse la sua destinazione definitiva a Ban Pha, sulle montagne. Infaticabile, visitava i villaggi a lui affidati a 2, 3 perfino 5 ore di cammino, con clima avverso e su piste impossibili. Così scrive: “[Il missionario] si rende presto conto che solo l’onnipotente grazia di Dio può convertire un’anima”. Nel giro di un anno percorrerà “almeno 3.000 chilometri a piedi con lo zaino sulle spalle. In alcuni giorni è dura, soprattutto quando la salute non è al massimo, ma sono felicissimo di dover lavorare in questo settore”.

Il 18 aprile 1961 padre Leroy stava pregando nella sua povera chiesa, quando sopraggiunse un distaccamento di soldati della guerriglia venuti a cercarlo. Secondo la gente del villaggio sapeva che si trattava della sua ultima partenza: chiese di poter indossare la sua veste, mise la croce, prese il breviario sotto il braccio e disse addio. Nella foresta alcuni colpi d’arma da fuoco: è la fine... Il sogno della sua gioventù, testimoniare Cristo fino al martirio, veniva esaudito.

Poco prima alle Carmelitane di Limoges aveva scritto:

[…] Avendo oggi un po’ di tempo libero a disposizione, cosa che non succede spesso, ne approfitto per darvi alcune notizie mie e del mio settore.

Probabilmente, a mezzo di radio e giornali, avete sentito parlare degli avvenimenti in corso nel Laos. In questo momento, per quanto riusciamo a capire, la situazione è piuttosto calma: nel mio villaggio sono passati una volta circa settecento soldati; non hanno detto nulla né a me né alla popolazione. Per il futuro non sappiamo nulla e continuiamo a fare come per il passato, riponendo fiducia nel Signore.

Il morale è ottimo. Sono felicissimo della mia vita missionaria, dura ma splendida. I miei desideri di un tempo, di vita missionaria nella boscaglia, sono pienamente esauditi. Dal punto di vista dell’apostolato ho molto lavoro da compiere. Nel corso dell’anno passato, ho dato più di 4.000 comunioni, ascoltato più di 2.000 confessioni e amministrato 19 battesimi. Questo numero sarà molto superiore l’anno prossimo. Attualmente, infatti, faccio catechismo a 70 catecumeni e la maggior potrà essere battezzata nel periodo di Pasqua del 1960.

Questo vuol dire che tutto è perfetto? Certamente no. Recentemente una cristiana apostata ha lasciato morire senza battesimo il bimbo di 10 mesi. Un altro cristiano apostata viene iniziato all’arte della stregoneria. Un altro ancora, battezzato l’anno scorso, non ha praticamente mai rimesso piede in chiesa da quando è cristiano. In uno dei villaggi, in cui i cristiani sono una minoranza fra i pagani, gli stregoni si danno da fare e riescono a turbare l’uno o l’altro cristiano, facendogli credere, se è ammalato, che solo il ritorno al culto dei geni lo farà guarire. Per fortuna, questi consigli perfidi non sono sempre ascoltati.

Ammalati e feriti esigono molto tempo e obbligano a lunghi e faticosi spostamenti. Fra i malati che curo, un cristiano si è ustionato il volto, le mani e un ginocchio. Per lui mi sono messo in cammino tre volte: per l’andata ci vogliono tre ore e mezza di cammino in montagna. Feriti e malati di questo genere non sono poi così rari. I numerosi pagani attorno a me, che incontro ogni giorno e che vengono per farsi curare, non si sono per nulla decisi a diventare cristiani.

Ecco un piccolo squarcio del mio settore, che una volta di più raccomando caldamente alle vostre preghiere. Pregate anche per me, perché il Signore possa compiere attraverso di me tutto il bene che desidera fare.

 

mercoledì 17 aprile 2024

Ci vuole un altro!

 


- Voglio capire come sono fatto. Voglio disegnare i miei contorni!
Ma… da solo è impossibile!

- Dai a me la matita!
Visto? Ci vuole un altro!

Gibì e DoppiaW di Walter Kostner nuovamente in dialogo…

Questa mattina la segretaria, invece dei documenti, mi ha portato un foglio con questa vignetta: un sottile richiamo a fare le cose insieme…

martedì 16 aprile 2024

Perché non sono come Mosè?

 

Ieri al Ghetto mi hanno raccontato di un uomo di nome Sussia che un giorno andò dal suo Maestro e gli rivolse la domanda: “Rebbe, perché non sono come Mosè nostro profeta?”. Il suo Maestro, con voce calma e tranquilla priva di qualsiasi severità, gli rispose: “Figlio mio, quando arriverà il tuo ultimo giorno il Signore Dio, Benedetto Egli sia, non ti chiederà perché non sei stato Mosè, ma perché non sei stato Sussia”.

lunedì 15 aprile 2024

A Tor de' Specchi con Francesca Romana

Oggi lezione a Tor de’ Specchi. Una mattinata d’incanto in uno dei luoghi più belli, più ricchi di storia e più segreti di Roma. Con la guida eccezionale di Alessandra Bartolomei Romagnoli, la più grande conoscitrice di Francesca Roma, di cui ha pubblicato le fonti.

Gli anni di santa Francesca Romana sono quelli dello scisma d’Occidente (1378-1449). Dopo che il papa ha fatto ritorno a Roma, ad Avignone si installa un antipapa e poco dopo ne sorge un terzo. In questa situazione lo Stato pontificio e in modo speciale la città di Roma, sono politicamente ed economicamente allo sbando. L’Urbe, per ben tre volte occupata da Ladislao di Durazzo, re di Napoli, è messa a ferro e fuoco, ridotta a un misero borgo con poche migliaia di abitanti. In quest’ambiente e in tale squarcio di storia si svolse la vita di Francesca Bussa.

Dodicenne, fu data in sposa a Lorenzo de’ Ponziani, la cui famiglia risiedevano in un palazzo di Trastevere. Una volta sposata, Francesca andò ad abitare nel palazzo dei Ponziani. Con la cognata Vannozza inizia a soccorrere poveri e ammalati. Percorre le strade per chiedere l’elemosina per i poveri, per assistere gli ammalati, le puerpere…

Alla morte del suocero, Andreozzo Ponziani, pur continuando le visite private e domiciliari ai poveri, si prende cura dell’Ospedale del Ss. Salvatore, che egli aveva fondato nel 1391 utilizzando la chiesa di Santa Maria in Cappella, in disuso. Veniva chiamata “la poverella di Trastevere”.

Quando aveva 25 anni, nel 1409, il marito, comandante delle truppe pontificie, durante una battaglia contro l’invasore Ladislao di Durazzo re di Napoli, è gravemente ferito rimanendo semiparalizzato per il resto della vita. Lei lo accudisce assieme al figlio.

Nel 1410 la casa è saccheggiata e i beni espropriati, il marito è costretto a fuggire e il figlio Battista preso in ostaggio.

Prese a dirigere spiritualmente il gruppo di amiche che la aiutavano nella carità quotidiana e che si riunivano ogni settimana nella chiesa di Santa Maria Nova. Il 15 agosto 1425, festa dell’Assunta, davanti all’altare della Vergine, assieme a dieci compagne si costituiscono in associazione con il nome di “Oblate Olivetane di Maria”. Nel marzo del 1433 vanno ad abitare a Tor de’ Specchi, dove sorge un piccolo villaggio. Il papa concede loro di «abitare insieme in qualche casa in questa città che fosse adatta e con­veniente allo scopo, di mettere in comune tutti i beni, che Dio aveva dati loro, e con questi di vivere in comune e in carità sotto l’obbedienza di una di loro, che esse giudicassero adatta a questo compito e che eleggessero nel tempo opportuno».

Conducevano una vita austera, povera e casta, fatta di lavoro nei campi, di preghiera, di condivisione dell’altrui sofferenza. La differenza di questo tipo di vita rispetto al monachesimo femminile tradizionale era radicale, per la semplicità dell’organizzazione comunitaria, per la libertà di vincoli gerarchici di subordinazione, per l’assenza di formalismo: una comunità aperta. Non erano né monache né laiche. Nelle intenzioni di Francesca Tor de’ Specchi doveva rimanere un monastero aperto, in grado di mantenere un rapporto vivo con il mondo circostante.

L’esperienza delle Oblate di Tor de’ Specchi fu caratterizzata dalla forte personalità di Francesca e dal suo eccezionale carisma.

La vita solitaria, monastica, è la tentazione segreta che segna tutta la sua esistenza, ma alla quale sa di non dover cedere. Quando il demonio le si presenta davanti sotto le sembianze di sant’Onofrio in veste di pellegrino, invitandola a seguirlo nel deserto, gli risponde con durezza, dicendo che vuole vivere nel luogo che Dio le ha assegnato, perché non bisogna andare in giro alla ricerca di false consolazioni spirituali e anche restando nel mondo è possibile santificarsi: «Miserabile, vigliacco, credi di prendermi con questa tua falsa luce, vuoi portarmi con te nel deserto, pensando di ingannarmi. Ma io voglio restare nel luogo che piace al Signore, e non desidero altro se non quello che piace a lui. Allora, in nome di Gesù Cristo crocefisso, vattene, torna nell’abisso».

Si recava ogni giorno nel monastero, continuando ad abitare nel Palazzo Ponziani, per accudire il marito malato. Dopo la morte del marito, con il quale visse per 40 anni, si unì alle compagne a Tor de’ Specchi dove fu eletta superiora.

Il popolo romano la considerò sempre una di loro chiamandola familiarmente “Franceschella” o “Ceccolella”.

Morì il 9 marzo 1440 nel palazzo Ponziani, dove si era recata per assistere il figlio Battista gravemente ammalato. La ricorrenza del giorno della sua morte, con decreto del Senato del 1494, fu considerato giorno festivo.

domenica 14 aprile 2024

Il mio "io" è Dio

 


Mi capita sottomano una frase di Caterina da Genova. Troppo arditi questi mistici. Parla del proprio io in maniera esagerata. Non lo nega, come abitualmente si pensa, per contrappore ad esso Dio. Lo trasfigura piuttosto, lasciando che venga assunto in Dio, indiandolo: «Se pure accade che per il vivere del mondo, ho bisogno del mio “io”, che non fa altro che parlare, quando mi nomino ovvero da altri sono nominata, dentro di me dico: il mio “io” è Dio: non conosco altro che il mio Dio».

sabato 13 aprile 2024

Non siamo “un branco di pecore”

Non siamo “un branco di pecore”, dove i singoli sono anonimi e amorfi. Nel gregge del Signore ogni persona è unica, ha un inestimabile valore, costituisce il bene più prezioso che egli possiede, al punto che per ognuno egli è pronto a dare la vita, tanto gli siamo cari.

Il Pastore buono ha un rapporto personale con ognuno. Di ognuno di noi conosce la storia, i sogni segreti, le prove e i dolori, le gioie intime. Ci conosce come nessuno ci conosce. Più ancora, è pronto a farsi sbranare dal lupo rapace pur di salvarci. Il suo morire per noi non è un fatalismo, un tragico incidente; è il frutto di una libera scelta: nessuno gli toglie la vita con violenza, la dà da se stesso, perché ci ama veramente.

Instaura con noi quei rapporti di conoscenza e d’amore che vive in cielo con il Padre, dove la conoscenza, l’amore, la generazione sono reciproci.

Vuole coinvolgerci nello stesso gioco d’amore. Fa scattare così la medesima dinamica che lo muove verso di noi. È la nostra vocazione: conoscerlo a nostra volta, sapere i suoi sogni segreti, penetrare il suo mistero, possederlo come il dono più prezioso. Rivivere con lui il rapporto trinitario di reciprocità che egli vive con il Padre, fino a che si dilati e giunga a coinvolgere, ad una ad una, anche le altre pecore vicine e lontane, quelle nel recinto e quelle fuori dal recinto, così da diventare un solo gregge, una sola famiglia, che rispecchi l’unità che si vive in cielo.