A volte sembra che parlare mistica sia riferirsi ad una realtà un po’ astratta, sulle nuvole. Niente ha più i piedi per terra della mistica. Due sole immagini, che mi sono care, a conferma della concretezza della mistica.
Le ho ridonate questa mattina a una ottantina di vescovi riuniti per il loro incontro al Centro Mariapoli di Castelgandolfo; tra loro anche il cardinal Martini.
La prima è quella del “metallo fuso”, di cui parla Riccardo di San Vittore, all’inizio del secondo millennio, in una sua breve opera, I quattro gradi della violenta carità, nella quale descrive il cammino del mistico. I primi tre gradi sono quelli classici, a tutti noti.
Nel primo grado l’anima ritorna a sé, riceve le visite assidue del promesso sposo e sale fino a sé. Nel secondo oltrepassa se stessa, sale a Dio ed è condotta nella sua casa. Nel terzo passa in Dio, si unisce a lui e si modella nella luce di Dio.
Quando stavo leggendo il libro per la prima volta mi domandavo quale sarebbe stato il quarto grado dell’amore. Non si può andare più in alto di così, pensavo. Una volta raggiunto Dio ed essere diventati un altro lui, non si più procedere oltre, non c’è niente oltre Dio.
Infatti il quarto grado non sale… ma scende, è la Caritas deficiens, l’amore che si abbassa!
L’esperienza dell’amore di Dio, spiega Riccardo, ha reso l’anima talmente ardente, che adesso essa si comporta come un metallo fuso: «Come il metallo fuso scende giù con corsa inarrestabile dovunque gli si apre una via, così l’anima si umilia alla totale obbedienza e con gioia accetta il sacrificio di sé correndo incontro a Dio nel modo che a Lui piace».
Essa fa proprio l’amore e la compassione di Dio per l’umanità e, dimentica di sé e delle gioie dell’unione mistica con Dio, si dedica tutta al servizio dei fratelli. Se nel terzo grado l’anima, innalzata a Dio, trapassa tutta in lui, nel quarto «lascia l’intimità di Dio e scende al di sotto di se stessa», «esce spinta dalla compassione»: l’anima «diventa madre di vita».
Ripercorre così la strada di Cristo che, pur essendo di natura divina, annientò se stesso venendo incontro all’uomo per dare a lui la propria vita. A Cristo, continua Riccardo, «deve uniformarsi chi vuole attingere il grado superiore della carità, se è vero che non c’è amore più grande che dare la vita per i propri amici».
Arrivare al grado supremo della carità può significare essere maledetto, fino ad essere separato da Cristo per amore dei fratelli. «Chi sale a questo grado di carità – continua Riccardo – attinge una tale virtù d’amore che può dire con assoluta verità: Mi sono fatto tutto a tutti per fare tutti salvi. Persino vorrebbe essere maledetto lui stesso dal Cristo per amore dei fratelli. È pazzia d’amore, che non sa mantenere nella passione la giusta misura».
Il vero mistico è colui che, diventato Dio, agisce come Dio che ama l’umanità, e corre verso l’umanità. Come si può compiere la volontà di Dio e aiutare gli altri ad attuare il suo disegno se non lo si conosce, se non lo si è contemplato?
L’altra immagine è quella del “castello esteriore”, di cui parla Chiara Lubich, alla fine del secondo millennio.
Anche lei ha percorso tutta l’ascesa mistica, fino a entrare in Dio. In quel famoso 16 luglio 1949 essa è fatta talmente uno da Gesù con lui stesso, da ritrovarsi là dove egli è, nel seno del Padre, in Paradiso. Più in alto di così non si può andare. Infatti, giunta in Paradiso, non ha più l’impressione di salire, ma di penetrare. È l’inizio di un lungo periodo nel quale ella “passeggia il Paradiso”, scoprendo sempre nuove sorprendenti realtà dell’infinito mistero della Trinità.
Sappiamo che quella esperienza mistica ha tante connotazioni di novità. La più evidente è la sua dimensione collettiva. Pochi momenti dopo essere entrata in Paradiso, rivolgendosi a Igino Giordani che era lì vicino, Chiara gli domandava: “Sai dove siamo?”.
Il mistico abitualmente racconta di dove lui si trova, perché non c’è niente di più personale del trovarsi in Dio propria dell’esperienza mistica. Lei invece parla al plurale. Non è sola nella sua esperienza, nel suo essere in Paradiso. Infatti, nei giorni successivi all’entrata nel seno del Padre, si vede insieme a tutte le altre anime unite a lei, quasi a formare un’anima sola, che vive la medesima esperienza mistica.
Anche nell’esperienza di Chiara, come per Riccardo di San Vittore, l’amore si fa deficiens, scende.
Difatti, il 20 settembre di quell’anno, dopo tre mesi in Paradiso, Chiara si sente dire: “Lascia il tuo Paradiso. Scendi. L’umanità ha bisogno di te, ti attende”.
E lei “scende”, scende dalle Dolomiti, ma soprattutto dal suo Paradiso, perché scopre un altro Paradiso. Scende dopo aver scritto quella famosa pagina: “Ho un solo sposo sulla terra: Gesù Abbandonato… In Lui è tutto il Paradiso colla Trinità… Andrò pel mondo CercandoLo…”.
Anche in questo lasciare il Paradiso per ritrovarlo nell’umanità, vi è un aspetto di novità. Se l’entrata nel Padre e il “viaggiare il Paradiso” era esperienza di corpo, di popolo, la discesa è nuovamente esperienza di corpo, di popolo.
Ed ecco l’immagine del “castello esteriore”, quasi pendant del “castello interiore” di Teresa di Gesù. Rivoluzione copernicana della mistica. Prima Sua Maestà lo si cercava nel centro dell’anima come in un castello interiore. Ora lo si scopre fuori dell’anima, tra anime che insieme costituiscono un castello esteriore con Sua Maestà che vive in mezzo alla sua comunità e la fa una attorno a sé.
Se questa è l’esperienza del Paradiso di Chiara, questa è anche l’esperienza della sua discesa dal Paradiso. Dio scende nel mondo non in un’anima, ma in un popolo. Gesù torna a vivere tra la sua gente. Non più un santo che cammina sulla terra, ma il Santo in mezzo a noi.
È questa la parabola completa della mistica. La salita al cielo per essere trasformati in Dio e da lì vedere il mondo con gli occhi di Dio e capire i disegni di Dio sull’umanità. Poi scendere per attuare quei disegni, vivere accanto ad ogni uomo e donna per renderli partecipi di quei disegni e poter camminare, insieme, verso la meta comune. È, come ha scritto Chiara in una suo notissima pagina, l’attrattiva del tempo moderno:
Ecco la grande attrattiva
del tempo moderno:
penetrare nella più alta contemplazione
e rimanere mescolati fra tutti,
uomo accanto a uomo.
Vorrei dire di più:
perdersi nella folla,
per informarla del divino,
come s’inzuppa
un frusto di pane nel vino.
Vorrei dire di più:
fatti partecipi dei disegni di Dio
sull’umanità,
segnare sulla folla ricami di luce
e, nel contempo, dividere col prossimo
l’onta, la fame, le percosse, le brevi gioie.
Perché l’attrattiva
del nostro, come di tutti i tempi,
è ciò che di più umano e di più divino
si possa pensare:
Gesù e Maria,
il Verbo di Dio, figlio d’un falegname,
la Sede della Sapienza, madre di casa.