lunedì 28 febbraio 2011

L'autobiografia di Renata


Ieri, nell'anniversario della morte di Renata Borlone, si è conclusa la fase diocesana del processo di beatificazione.

Per l'occasione è stata presentata l'autobiografia, curata da Lida Ciccarelli e Fabio Ciardi. clicca qui
Renata non ha mai pensato di scrivere una autobiografia. Ha semplicemente risposto a un invito di Chiara che chiedeva a lei e a tutti i suoi primi compagni e compagne di raccontare gli inizi della loro storia. Renata, che era abituata a scrivere a Chiara, le ha semplicemente scritto una lettera un po’ più lunga del solito, narrandole dei primi anni della sua vita, di come è venuta in contatto con il Movimento nascente, di come a seguito Chiara. Quando, ho letto questo scritto di Renata, sono rimasto impressionato dalla bellezza del testo, ma soprattutto dalla limpidezza della sua vita. Ho capito che poteva essere un esempio per tanti, perché il suo cammino è stato “normale” e insieme travagliato, come lo è quello di tanti di noi, e insieme deciso. Non si è mai arresa e ha puntato con tutte le sue forze alla santità, sentendosi sempre sorretta dall’amore di Dio. Una santità possibile, la sua. Per questo ho pensato valesse la pena far conoscere a tanti questa meravigliosa storia.

domenica 27 febbraio 2011

La gioia della famiglia ritrovata

“Missionario del dialogo”: resterà la qualità distintiva del vescovo trevigiano Marcello Zago missionario oblato di Maria Immacolata… E sarà questo il carisma della sua santità, se sarà aperto – come sembra – il processo per la sua beatificazione… perché ha unito l’esperienza con la riflessione, la vita con la dottrina, la testimonianza con l’insegnamento… Amava e coltivava il contatto personale, ascoltava, condivideva, valorizzava il vissuto di ciascuno, la diversità delle esperienze, con squisita carità, umana e illuminante. Così oggi su “La voce del popolo”.

Abbiamo vissuto due giornate straordinarie a Villorba, il suo paese natale, non soltanto rievocando la sua figura e il suo messaggio a dieci anni dalla morte, ma anche sperimentato il senso della famiglia. Era presente tutta la famiglia di Zago, quella naturale, così affiatata e compatta, ma anche quella spirituale, con i suoi Oblati, i parenti degli Oblati del Veneto sparsi in tutto il mondo, gli amici degli Oblati, le famiglie nate degli Oblati come OMMI e COMI, religiosi di altre congregazioni, sacerdoti amici… E poi la parrocchia, il vescovo…
Ogni tanto c’è un’occasione per ritrovarti insieme, qui, a Roma, altrove, e anche se sono passati degli anni, ogni volta è come ci fossimo visti il giorno prima. È la grande famiglia di sant’Eugenio, unita dal legame profondo di quella carità che egli ci ha lasciato come suo testamento: “Tra voi la carità, la carità, la carità”.
Quella carità che è la “virtù fondamentale” di quel dialogo di cui p. Marcello era testimone e maestro, come ho ricordato ieri sera citandolo: “Ogni forma di dialogo esige rispetto e amore per l’altro. Ma per il cristiano la carità verso gli altri si innesta in quella di Dio, che condivide con noi il suo amore. È un amore divino che è entrato nel mondo e che si è incarnato nel Cristo... E il dialogo assume le qualità stesse della carità: è universale, graduale, premuroso, fervente e disinteressato, senza limiti e senza calcoli, comprensivo e adattato a tutti. Sono le qualità che mi sembra si rispecchino nella vita di p. Marcello e che siamo chiamati a far risplendere nella nostra vita.
Nel viaggio di ritorno a Roma, sull’Appennino la neve dell’ultimo inverno ci saluta festante.

venerdì 25 febbraio 2011

Zago e il dialogo tra le religioni: impegno di popolo


Il 1° marzo 2011 si celebra il decimo anniversario della morte di S.E. Mons. Marcello Zago, OMI. Sabato 26 febbraio, a Villorba, in provincia di Treviso, suo paese natale, terrò la commemorazione. Visto che quest’anno ricorre il 25° della giornata di preghiera per la pace ad Assisi, parlerò del ruolo che Zago svolse in quella occasione.
L’evento di Assisi, che vide i capi delle religioni attorno al Papa, ha posto una pietra miliare nel dialogo interreligioso, un punto fermo, che ha segnato il cammino della Chiesa e delle religioni di tutto il mondo; «un’immagine – come scrisse p. Zago – e un auspicio di ciò che le persone religiose dovrebbero essere per la società: intercessori presso Dio per la pace, costruttori tra gli uomini di pace», l’icona dell’unità dei figli di Dio, della reale possibilità di dialogo, di amicizia e di comunione tra tutti.
Con la giornata di Assisi padre Marcello Zago si congedava dal Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso, essendo stato da poco nominato Superiore generale degli Oblati. L’effetto-Assisi non si sarebbe più fermato. Come allora aveva profetizzato, «Per chi vuole capire la natura e il cammino del dialogo interreligioso nella Chiesa e nel mondo, l’incontro di preghiera di Assisi del 27 ottobre 1986 resterà una tappa determinante, e più ancora il simbolo significativo».
In quella giornata egli vedeva innanzitutto una conferma del dialogo ecumenico e interreligioso. Ciò che il Concilio aveva sostenuto nei documenti, ad Assisi veniva «espresso in forma solenne e a tutti comprensibile, amplificato dai mezzi di comunicazione. Ad Assisi, l’accoglienza dei rappresentanti religiosi e l’assistenza alla preghiera delle diverse religioni sono state in qualche modo un riconoscimento delle religioni e in particolare della preghiera, un riconoscimento che religioni e preghiera hanno non solo un ruolo sociale, ma anche una efficacia presso Dio».
Nel suo diario, al termine di quella giornata memorabile, padre Zago ricorda che nel primo pomeriggio, partendo dai diversi luoghi di preghiera, i gruppi delle varie religioni si erano diretti verso san Francesco tra la folla che applaudiva. Poi una nota personale che sottolinea quanto fosse importante per lui il consenso del popolo cristiano: «A me che guidavo il corteo venne improvvisamente in mente il Concilio di Efeso. Allora, il popolo accolse tripudiante i padri conciliari che avevano riconosciuto Maria Madre di Dio, e così ratificò tale dichiarazione dogmatica. Qui ad Assisi mi sembrava che il popolo, in maggioranza cattolico e confluito da tante parti del mondo, non solo applaudisse i convenuti, ma approvasse il dialogo e l’ecumenismo promosso dalla Chiesa fin dal Concilio Vaticano II».
Non possiamo delegare ai capi quella costruzione dei rapporti tra persone di tutte le religioni; il dialogo e la comunione è un impegno di tutti. 

giovedì 24 febbraio 2011

È arivato Nando

Una serata coi fiocchi quella che abbiamo passato nel teatro del Seraficum, con Daniele Ricci e la sua equipe al meglio della sua forma. Canzoni e danze che ti sollevano l'anima e ti mettono gioia, ti fanno sentire che amare è possibile! Anche con una persona difficile come Nando!
Per ascoltare la canzone basta cliccare: E' ARIVATO NANDO.mp3

È arivato Nando, er novo vicino che m’abbita accanto
È arivato Nando er fosco
che cià na faccia così nera che me pare che già lo conosco

Mbè 'sto Nando sta a salì le scale.
Lo aspetto su ar pianerottolo, è normale:
quarcuno je deve pure dì "Benarrivato
tra noi, qui dove te sei appena sistemato"

Me passa davanti e je sorido cordiale 
perché è naturale
ner nostro condominio
Ma lui tira dritto, nimmanco me sente 
e nùn me se fila pè gnente! 
Che gente, ner nostro condominio!
        
Er giorno dopo giù ar portone der palazzo
me lo vedo sfreccià davanti come un pazzo.
Me frega l'ascensore sale su e me lascia a tera.  
Ho capito: Nando: allora tu voi la guera!
Così er giorno dopo che lo vedo per caso 
lontano che ariva je chiudo er portone sur naso 
der condominio!
È fatta! Je l'ho restituita la bella partita, ha! 
Però n'so' cose da fasse ner condominio..!

Io che sto a dì che Roma ha da esse ‘na famija sola,
si mò ‘n me ‘nvento quarcosa è fumo che vola!
Allora sai che? Quanno che incrocio Nando starò in campana
pe’ coje l’occasione e fà ‘na cosa strana!
E così stammattina che l'ho visto coi sacchi della la spesa 
J’ho fatto ‘na sorpresa ner mezzo der
condominio!
J'ho detto piano: "A me me sa che ‘sti sacchi sò troppi e mò te do ‘na mano!" 
Lui m'ha guardato, m'ha ariguardato.
Nun ce credeva, Nando nun ce credeva! 
J'ho preso un peso, lui m'ha soriso, j'ho visto i denti
Nando cià li denti! M'ha detto: “Grazie,
pe’ me queste queste nun so inezie!”.
L’ho accompagnato, m’ha salutato
Beh, sarà ‘na robbetta, ma io… ho cominciato…

mercoledì 23 febbraio 2011

Più puro dove più turpe è la via

Coincidenza. Mi sono capitate tra mano due poesie scritte un secolo fa, lo stesso anno, da due poeti lontanissimi tra loro per cultura e geografia. “Pasqua a New York” di Blaise Cendrars e “Città vecchia” di Umberto Saba.

Hanno in comune la discesa nel ventre della città:
Saba:
prendo un'oscura via di città vecchia.
Cendrars:
Scendo a gran passi verso i quartieri più miseri,

Qui incontrano la povera gente:
Saba:
la gente che viene che va
dall'osteria alla casa o al lupanare,
dove son merci ed uomini il detrito
di un gran porto di mare
Cendrars:
la folla dei poveri
È qui, stipata come bestiame, negli ospizi.
Immense navi nere arrivano dagli orizzonti
E li sbarcano, a mucchi, sui pantani.
Vi sono Italiani, Greci, Spagnoli,
Russi, Bulgari, Mongoli, Persiani.
Sono bestie da circo che saltano i meridiani.
Si getta loro un pezzo di carne nera, come ai cani.

Fatti uno con questo mondo del male e della miseria entrambi sanno cogliervi la presenza di quel Dio che già prima di loro si era fatto accanto agli ultimi della terra
Saba:
sono tutte creature della vita
e del dolore;
s'agita in esse, come in me, il Signore.
Cendrars:
Signore, sono nel quartiere dei bravi ladri,
Dei vagabondi, dei mendicanti, dei ricettatori.
Penso ai due ladroni che erano con te al Supplizio,
So che ti degni sorridere della loro miseria.

Ciò che più mi ha toccato è la finale di Saba, che si fa puro proprio nella turpitudine, parabola di ogni discesa fatta con amore:
Qui degli umili sento in compagnia
il mio pensiero farsi
più puro dove più turpe è la via.

martedì 22 febbraio 2011

San Pietro racconta dalla sua cattedra… o sullo sgabello


Subito dopo pranzo sono uscito dietro casa per andare a San Pietro. Oggi è la festa della cattedra di Pietro: la statua di bronzo, con il piede consunto dal bacio del fedeli, è rivestita col piviale rosso e coronata con la tiara; la cattedra rivestita dalla gloria del Bernini è circondata da lumi allineati con rigore geometrico.
La “cattedra”, elemento più importante di ogni sede episcopale, quella che dà il nome alla “cattedrale”. Il vescovo vi si siede e da lì insegna. È il segno del suo compito di maestro della fede. Quella che è in san Pietro, sorretta dai due grandi padri della Chiesa d’Oriente, Atanasio e Giovanni Crisostomo, e dai due grandi padri della Chiesa d’Occidente, Ambrogio e Agostino, non è quella sulla quale sedeva Pietro, ma quella regalata da Carlo il Calvo a papa Giovanni VIII che lo aveva incoronato re; se l’era portata con sé dalla Francia per l’occasione.
Chissà dove si sedeva Pietro quando insegnava nella sua “sede episcopale” prima di Antiochia e poi di Roma? Su un sasso, su uno sgabello qualsiasi… Oppure parlava in piedi, appoggiato al muro. È certo che quando parlava incantava la sua gente. Raccontava di Gesù, di quando lo chiamò sul lago, di quando lo riconobbe figli di Dio, di quando lo tradì, delle lacrime quella notte del tradimento, che spuntavano ogni volta che ricordava quel momento tremendo…
Oggi in San Pietro ho lasciato che mi raccontasse di nuovo la sua storia e gli ho chiesto di darmi il suo stesso amore per Gesù.
Ho riletto, nel mio “Racconti di Cafarnao”, quando narrava dell’ultimo incontro con Lui:


Chi era quell’uomo, là sulla roccia, sul bordo del lago, che dava consiglio a noi pescatori? Contro il sole nascente non ne distinguevo il volto. Doveva essere uno dei vecchi pescatori di Cafarnao, usi al mestiere. Calammo le reti, come ci aveva gridato. E il pesce, latitante tutta la notte, accorse a frotte. Lo sentivo da come tirava la rete.
“È il Signore”, sussurrò il più giovane. Il Signore? Piegato sull’orlo della barca, per un attimo rimasi paralizzato a guardare l’acqua che guizzava d’argento. Il Signore? Avrei dovuto pensare che non era possibile. Avrebbe mai nascosto la sua gloria, il Signore Risorto, dietro quel vecchio pescatore laggiù sulla riva? Sarebbe stato opportuno che ponderassi meglio quell’affermazione: È il Signore. Ma avevo già mollato la presa, m’ero già tolto la veste, m’ero già buttato in acqua verso di Lui, il Signore.
Era proprio Lui. Stava controluce, ma era proprio Lui. Lo riconoscevo e non lo riconoscevo nei suoi lineamenti, ma era proprio Lui. Ansimante, caddi in ginocchio e lo guardai. Era proprio Lui.
- Pietro, mi ami?
- Ti amo, gli dissi con la passione di sempre.
- Mi ami più di tutti?
- Sì, Maestro, gli gridai con convinzione, mentre mi sentivo il cuore in gola, e non era più per la corsa nell’acqua.
- Pietro, mi ami veramente?
La terza volta! Mi sentii schiantare il cuore. L’entusiasmo e la passione delle prime due risposte si incrinarono. La vista mi si appannò. Era nuovamente quella nube che mi aveva tolto la sua figura sul monte santo? Come allora mi sentii vacillare. M’invase quel timore oscuro e il tremore.
Il mio tradimento, il mio triplice tradimento: Non lo conosco, non lo conosco, non so niente di Lui…
Lo guardai di nuovo. Lo riconoscevo e non lo riconoscevo, ma era Lui. La fontana delle lacrime amare che s’era aperta al suo sguardo nel cortile del sommo sacerdote in Gerusalemme riprese a gemere. Lo riconoscevo e non lo riconoscevo, tra il velo delle lacrime, ma era Lui. Ora soltanto, dal baratro del mio tradimento, potevo dire la verità:
- Tu lo sai – sussurrai con un filo di voce, ma fu la mia vita a dirglielo –, tu sai tutto, tu lo sai che ti amo.
- Pasci le mie pecorelle.
Fu così che mi aperse la via: percorro il mondo testimoniando l’amore.

lunedì 21 febbraio 2011

Gli Oblati in Turkmenistan


È un uomo piccolo, sereno, sempre pronto ad ascoltare e ad incoraggiare: mons.  Andrzej Madej da tredici anni è in Turkmenistan. L’episcopio-parrocchia-nunziatura-comunità si trova nel centro della città. È modesto e non sbandiera alcun segno di ricchezza: la cappella, per una cinquantina di persone al massimo, i locali parrocchiali, gli alloggi per alcune collaboratrici, la comunità degli Oblati di Maria Immacolata di cui fa parte, una comunità composta peraltro da due persone solamente.
Così Michele Zanzucchi inizia il suo racconto sugli Oblati che ha visitato in Turkmenistan. Per leggere l’articolo clicca qui.

domenica 20 febbraio 2011

La verità più grande di noi

Il principale presupposto per ogni dialogo:
"l'abbandono dell'autosufficienza,
nella consapevolezza che la verità è sempre più grande di noi
ed è meglio cercarla insieme che da soli"
(Paolo Ricca)

sabato 19 febbraio 2011

Il ritratto di una spiritualità


Erano gli anni della Rivoluzione messicana e delle leggi anticlericali adottate dal governo Calles: requisizione dei beni ecclesiastici, chiusura delle scuole cattoliche, soppressione degli ordini religiosi. Erano gli anni dell’opposizione cattolica, con l’ala pacifica della “Lega Nazionale per la Libertà Religiosa”, e quella favorevole ad azioni violente, animata dai famosi “Cristero”. Era il tempo della pubbliche esecuzioni di cristiani accusati anche soltanto di professare pubblicamente la fede cattolica.
Anche padre Joseph si trovò nell’occhio del ciclone. Si salvò due volte per miracolo. La prima si face passare per un commerciante tedesco, la seconda indossando un’uniforme di ufficiale della marina. Questa seconda volta venne addirittura scortato dalla polizia fino alla sua nave. Sapevano che qui si nascondeva un prete. Lo cercarono invano, con l’aiuto dei passeggeri, invogliati dalla taglia che pesava sulla sua testa. Una volta che la nave uscì dalle acque territoriali messicane, l’ufficiale cambiò d’abito e indossò la veste e il crocifisso oblato lasciando di stucco i passeggeri.
Padre Joseph Rose era nato a Bonn, in Germania, il 24 gennaio 1877. Una volta diventato Oblato ricevette la sua prima obbedienza per il Messico. Ne era felicissimo. “La gioia che provo nel ricevere l’obbedienza per il Messico, scrisse al suo superiore, è ineffabile. Come sono grato a Dio che mi sceglie per prendere parte a una fondazione nuova. Oh, sì, lo ringrazio e lo ringrazierò ogni giorno della mia vita” (3 marzo 1902). Pochi giorni dopo gli riprendeva: “Ve lo dico e lo ripeto, che andrò volentieri in Messico per far parte d’una fondazione, perché so che il buon Dio mi ha chiamato attraverso la vostra persona. Ho pregato molto perché il Buon Dio mi doni la grazia necessaria per compiere i miei doveri di stato” (20 marzo 1902).
Partì con libri e bagagli come tutti gli altri, ma in più aveva con sé una cassa di articoli da fotografo. Era infatti un artista! Lo avevano scoperto presto durante gli anni della sua formazione in Germania. Il suo superiore, p. Leynhecher, nel 1898, alla vigilia degli ordini minori, scriveva di lui “La sua intelligenza ha sbalordito; non si aspettavano che riuscisse così bene allo Scolasticato. A volte è un po’ ingenuo. Artista (notevole talento per il disegno)… Cuore tenero e sensibili, riconoscente per natura… è pieno di ardore per la sua perfezione. Di salute cagionevole e tuttavia sano”. È un ritratto che rimarrà inalterato lungo tutta la sua vita. Sempre fragile di salute, accusa mal di testa, stanchezza…, uno di quelli che sembra siano sempre per morire, eppure capace di arrivare a 80 anni senza mai venir meno ai suoi impegni di missionario in mezzo alla gente. Sensibile e semplice, sa affrontare situazioni difficili e guidare le comunità. E soprattutto, artista: musicista, pittore, fotografo. 
E' di lui come artista che voglio parlare. Non lo conoscevo fino a quando non ho visto la riproduzione di uno dei suoi quadri a Sarita, nel sud del Texas, e poi l’originale negli archivi di San Antonio. È il ritratto di uno dei missionari più famosi del Messico, p. Juanito de la Costa (il suo nome francese era Jean Bretault). Mi è piaciuto l’intensa espressione del ritratto, ma soprattutto mi hanno colpito le scritte che lo circondano, otto parole nelle quali mi sembra si volesse racchiudere la spiritualità oblata. Allora ho voluto conoscerne l’autore, Joseph Rose, e il soggetto, Jean Bretault. Mi sono chiesto perché p. Joseph abbia voluto abbinare il ritratto di un Oblato con le sei parole. Vedeva forse in lui l’espressione della spiritualità dei Missionari Oblati? E come è pervenuto a sintetizzarla in sei parole? Era forse il frutto della propria esperienza missionaria?
I due si sono incontrati e conosciuti molto bene in Texas dove p. Joseph era arrivato, dal Messico, nel 1914. P. Juanito vi era dal lontano 1872, quando p. Joseph non era ancora nato. Per p. Joseph era un vero modello, come scrisse il 2 giugno 1934 al superiore generale a Roma: “Oggi siamo tornati dal Noviziato, dove abbiamo accompagnato al suo ultimo riposo il nostro amatissimo Padre Juanito, modello di vero religioso e missionario dei poveri”. Penso valga la pena leggere le sei parole alla luce della vita di entrambi i missionari. È quello che tenterò di fare… a puntate!

venerdì 18 febbraio 2011

Sempre sull’amore discendente di Riccardo di San Vittore

E veniamo al testo di Riccardo di san Vittore che ci hai ricordato qualche giorno fa nel tuo blog. Bella quella idea del "metallo fuso". Si vede che l'ambiente ormai preparava quello che poco dopo ha formulato san Tommaso (ST II-II, 188) come: "maius est contemplata aliis tradere quam solum contemplari" (è più perfetto trasmettere agli altri quanto si è contemplato che contemplare soltanto). Ma penso che si può dire che, in pratica, per la spiritualità cristiana è stato così quasi sempre. I santi e i mistici, voglio dire quelli che veramente hanno trovato Dio, sempre hanno cercato (con le sue opere di carità o di apostolato, e anche con i loro scritti spirituali e mistici) di trarre tanti altri dentro il fuoco dell'amore di Dio. Forse hanno incominciato con una o due persona (e anche questo vale per gli scritti), ma poi sono arrivati a tanti. Questo mi sembra che è proprio il "contemplata aliis tradere". 
Con la spiritualità di Ignazio si incomincia a dire: "contemplativus in actione". Questo si è una novità. Credo che sia stato il P. Nadal a formulare questa axioma. In questo senso penso che ci sono certi punti in comune tra l'impostazione d'Ignazio e quella di Chiara Lubich. (José Damián, Spagna)

Il blog di p. Fabio? "Il cielo sulla terra: Riccardo di San Vittore e Chiara Lubich". A me è sembrato un regalo. Poiché l'amore "scende", è giunto fino a me... (Cinzia, Sicilia)

giovedì 17 febbraio 2011

Un modo intelligente di fare il pensionato


A Bologna, nella casa degli Oblati, festa per l’anniversario della fondazione. Una trentina i preti amici convenuti per una mattinata di ritiro nella quale ho potuto parlare di sant’Eugenio. E poi la festa, naturalmente, con un pranzo comunitario preparato da una squadra di uomini eccezionali. Pensionati, amici camminatori, si dedicano al volontariato tinteggiando chiese, canoniche, opere parrocchiali, preparando pranzi all’occasione… per il gusto di stare insieme e rendersi utili. Un modo intelligente per vivere il tempo della pensione!

mercoledì 16 febbraio 2011

Il segreto dell’evangelizzazione

«Te Deum laudamus… Cari fratelli, ieri sera, 17 febbraio 1826, il Sommo Pontefice Leone XII ha confermato la decisione della congregazione cardinalizia ed ha approvato in forma specifica l'Istituto, le Regole e le Costituzioni dei Missionari Oblati della SS. e Immacolata Vergine Maria... La conclusione da trarre, miei cari amici e ottimi fratelli, è che dobbiamo lavorare con rinnovato ardore e l'abnegazione più completa per procurare a Dio la gloria che possiamo dargli e la salvezza alle povere anime del nostro prossimo con tutti i mezzi possibili… In nome di Dio, siamo santi».

Il papa aveva approvato gli Oblati perché aveva visto i frutti della loro evangelizzazione. Quale il segreto della loro azione missionaria? Dai primissimi tempi della fondazione colgo schematicamente cinque tratti della strategia missionaria che sant’Eugenio ha impresso alla sua comunità. Leggi qui.

martedì 15 febbraio 2011

Come pregare?

Il 25 febbraio 1826 una Congregazione di cardinali si riunì nel palazzo Albertoni per discutere sulle Regole degli Oblati. Quella mattina Eugenio de Mazenod celebrò presto la messa e andò al palazzo chiedendo al portiere di avvisarlo quando la riunione sarebbe terminata. Lui avrebbe aspettato nella chiesa di fronte, santa Maria in Campitelli. Era venuto a Roma mesi prima per chiedere al papa l’approvazione e quella mattinata sarebbe stata decisiva: se i cardinali avessero dato parere positivo, il papa l’avrebbe certamente approvata.
Come capita, si dimenticarono di chiamarlo, così Eugenio se ne stette tranquillo in chiesa tutta la mattinata, «per cui – come scrive lui stesso – ebbi la comodità di ascoltare nove messe. Essendo però entrato in chiesa ben determinato ad aspettare, non mi sono annoiato per niente: mi trovavo così bene dentro questa bella chiesa, occupato come bisognerebbe poterlo essere sempre. Tuttavia quando mi accorsi dell'impossibilità che i cardinali avessero protratto così a lungo la riunione, venni fuori: era l'una. Infatti erano andati via da più di un'ora».

Perché ogni anno gli Oblati, in questo giorno, vengono a celebrare la messa in questa bella chiesa? Anche oggi eravamo tutti lì, con grande aria di festa… Non tanto per ringraziare Dio della loro approvazione, cosa che faremo il 17 febbraio, giorno in cui l’approvazione fu data dal Papa.
Veniamo qui perché Eugenio vi ha pregato tutta la mattinata con “comodità”. Ci fa bene ricordare l’importanza della preghiera, e della preghiera come la faceva lui, un parlare con fiducia filiale, come se Gesù fosse proprio lì accanto, come in effetti lo è. Lui stesso ci ha raccontato come pregava in quei giorni: «Devo anche confessare che se non avevo mai pregato tanto, mai nemmeno avevo pregato con tanta letizia interiore, frutto di una fiducia assoluta ma filiale fino a parlare con Nostro Signore, come oso pensare che l'avrei fatto se avessi avuto la fortuna di vivere quando passò su questa terra... Specialmente al momento della comunione, quando il nostro divin Salvatore è lì per darci la prova più grande di amore, ero portato ad abbandonarmi ai sentimenti che la sua divina presenza e l'immensa sua misericordia in questi istanti preziosi ispirava alla mia povera anima, sentimenti mai provati più intensamente mentre non vedevo respinto un peccatore come me».

lunedì 14 febbraio 2011

Il dialogo riconosce il valore dell'altro

15 febbraio

I buddhisti ricordano la morte di Buddha.
I cristiani d’Oriente festeggiano la presentazione di Gesù al tempio.
I musulmani celebrano la nascita del Profeta.
Perché non ci riconosciamo veramente fratelli?

Ho preparato la conferenza che terrò a Treviso il 27 febbraio sul contributo di Marcello Zago al dialogo interreligioso, in particolare alla giornata di preghiera per la pace ad Assisi, nel 1986, con Giovanni Paolo II.

«Il dialogo riconosce il valore dell’uomo. Ogni persona umana è ciò che c’è di più grande nell’universo, è degna di ascolto e di rispetto. È un mistero che si svela solamente con il dialogo. Essa si realizza e si perfeziona nel dialogo e nella comunione interpersonale […]. Se abbiamo un vero amore per l’altro, se vogliamo conoscere il nostro fratello buddhista, senza etichette aprioristiche, e crescere insieme dobbiamo accettare e coltivare il dialogo. […]
Il dialogo aiuta a crescere non solo le persone ma anche i popoli. L’umanità ha progredito nella storia, anche se con spinte incerte e difficili, grazie agli incontri tra uomini, tra civiltà e culture. Le religioni stesse si sono arricchite al contatto con altre tradizioni e culture».

domenica 13 febbraio 2011

Unico

Sul muro del castello oggi m’hai scritto:
“Per il mondo
sei una persona qualunque,
per me
sei il mondo.
Ti amo”.

Sono unico per Te, sei Unico per me.
L’Amore dammi che sappia amarti,
il Cuore tuo per ricambiarti.

sabato 12 febbraio 2011

“Favorite”. L’ospitalità calabrese

Ero in treno con un altro confratello - (…) anno 1976 - e nello stesso scompartimento viaggiava una famiglia. Noi eravamo carichi di valigie e non avevamo portato quasi nulla per mangiare durante il viaggio. La famiglia accanto, invece, era stata più saggia di noi e al momento opportuno tira fuori il tovagliolo, le olive, il pane e altro. Subito lo scompartimento si riempie del profumo del pane. La mamma preparò il pane e fece un gesto bellissimo, indimenticabile: lo offrì prima a noi due, poi a suo figlio. Questo gesto, espressione del cuore della gente calabrese, fu accompagnato da un “Favorite”.
Questo episodio, con il quale GianCarlo Maria Bregantini nel libro Il nostro Sud in un Paese reciprocamente solidale, ricorda il suo primo viaggio in Calabria, mi ha subito richiamato il mio primo viaggio in Calabria, un anno prima, nell’ottobre del 1975. Piombammo in una casetta modesta, in riva al mare, in una quindicina di persone affamate. L’anziana coppia ci accolse con una cortesia infinita, mettendo fondo a tutte le riserve di pane, affettati, sottoli… Ci donò tutto quanto possedeva, in una condivisione festosa. Nella famiglia e nel vicinato (soltanto quest’anno ho saputo che quella volta tutto il vicinato si era mosso per aiutare la famiglia nell’ospitalità) quel passaggio rimase un episodio epico, da ricordare con gioia la sera con gli amici. Neppure in me si è mai cancellata in cuore la festa di quel giorno.

venerdì 11 febbraio 2011

Nel sociale, con stile

Oggi, festa della Madonna di Lourdes, penso ai tanti titoli che le sono stati dati dalla devozione: Conosciamo già la Madonna del riposo e quella del lavoro, ma c’è anche la Madonna del parto, del latte, del buon consiglio, della strada, della salute, della tosse, dell’equilibrio, che scioglie i nodi… e chi più ne ha più ne metta. Non c’è situazione o luogo o attività che non abbia la sua Madonna. Lei sa entra in ogni ambito della vita umana. Può permetterselo per due motivi: perché è stata una donna normale ed è passata attraverso le vicissitudini di ogni persona normale; perché ha un fare deciso ma nello stesso tempo discreto e rispettoso, presente senza imporsi.
La Madonna del riposo è soltanto una parabola per illustrare il contrasto tra Maria, la cristiana per eccellenza, e noi cristiani di oggi. La cultura e la società vogliono relegare Chiesa e cattolici nella sfera privata e, pensando che la nascita e la morte siano eventi privati, lasciano a noi l’inizio e la fine della vita. O meglio, disputano con la Chiesa su questo campo: contraccezione, aborto, eutanasia, testamento biologico…, ritenendo appunto che siano ambiti a cui essa tiene perché, lo riconoscono, ci competono particolarmente. Ci teniamo, con ragione, perché crediamo nella vita.
Ma tra l’inizio e la fine della vita… c’è una vita intera! E questa non ci riguarda? Come ci battiamo, giustamente, per i due estremi dell’esistenza umana, siamo chiamati a entrare in campo negli ambiti di tutta la sua esistenza, in quello dell’educazione, del lavoro, della politica, della finanza, della sanità, dello svago. Messa al mondo una vita nuova, questa ha bisogno di una famiglia, che va tutelata, posta nelle condizioni di far crescere questa vita, di seguirla, di assicurarle un futuro. Come cristiani, portatori di valori evangelici e di una visione integrale di vita, non possiamo disertare l’arena sociale. Come Maria, appunto, che ha saputo guadagnare terreno ovunque.
Ma anche come Maria nello stile. Se vi è un tentativo di emarginazione dal sociale è forse perché a volte si percepisce, da parte nostra, un fare arrogante e presuntuoso, lontano da quello di deciso e insieme discreto e rispettoso. Avremmo da imparare da lei presenza e modo di presenza.

giovedì 10 febbraio 2011

Il cielo sulla terra: Riccardo di San Vittore e Chiara Lubich

A volte sembra che parlare mistica sia riferirsi ad una realtà un po’ astratta, sulle nuvole. Niente ha più i piedi per terra della mistica. Due sole immagini, che mi sono care, a conferma della concretezza della mistica.
Le ho ridonate questa mattina a una ottantina di vescovi riuniti per il loro incontro al Centro Mariapoli di Castelgandolfo; tra loro anche il cardinal Martini.

La prima è quella del “metallo fuso”, di cui parla Riccardo di San Vittore, all’inizio del secondo millennio, in una sua breve opera, I quattro gradi della violenta carità, nella quale descrive il cammino del mistico. I primi tre gradi sono quelli classici, a tutti noti.
Nel primo grado l’anima ritorna a sé, riceve le visite assidue del promesso sposo e sale fino a sé. Nel secondo oltrepassa se stessa, sale a Dio ed è condotta nella sua casa. Nel terzo passa in Dio, si unisce a lui e si modella nella luce di Dio.
Quando stavo leggendo il libro per la prima volta mi domandavo quale sarebbe stato il quarto grado dell’amore. Non si può andare più in alto di così, pensavo. Una volta raggiunto Dio ed essere diventati un altro lui, non si più procedere oltre, non c’è niente oltre Dio.
Infatti il quarto grado non sale… ma scende, è la Caritas deficiens, l’amore che si abbassa!
L’esperienza dell’amore di Dio, spiega Riccardo, ha reso l’anima talmente ardente, che adesso essa si comporta come un metallo fuso: «Come il metallo fuso scende giù con corsa inarrestabile dovunque gli si apre una via, così l’anima si umilia alla totale obbedienza e con gioia accetta il sacrificio di sé correndo incontro a Dio nel modo che a Lui piace».
Essa fa proprio l’amore e la compassione di Dio per l’umanità e, dimentica di sé e delle gioie dell’unione mistica con Dio, si dedica tutta al servizio dei fratelli. Se nel terzo grado l’anima, innalzata a Dio, trapassa tutta in lui, nel quarto «lascia l’intimità di Dio e scende al di sotto di se stessa», «esce spinta dalla compassione»: l’anima «diventa madre di vita».
Ripercorre così la strada di Cristo che, pur essendo di natura divina, annientò se stesso venendo incontro all’uomo per dare a lui la propria vita. A Cristo, continua Riccardo, «deve uniformarsi chi vuole attingere il grado superiore della carità, se è vero che non c’è amore più grande che dare la vita per i propri amici».
Arrivare al grado supremo della carità può significare essere maledetto, fino ad essere separato da Cristo per amore dei fratelli. «Chi sale a questo grado di carità – continua Riccardo – attinge una tale virtù d’amore che può dire con assoluta verità: Mi sono fatto tutto a tutti per fare tutti salvi. Persino vorrebbe essere maledetto lui stesso dal Cristo per amore dei fratelli. È pazzia d’amore, che non sa mantenere nella passione la giusta misura».
Il vero mistico è colui che, diventato Dio, agisce come Dio che ama l’umanità, e corre verso l’umanità. Come si può compiere la volontà di Dio e aiutare gli altri ad attuare il suo disegno se non lo si conosce, se non lo si è contemplato?

L’altra immagine è quella del “castello esteriore”, di cui parla Chiara Lubich, alla fine del secondo millennio.
Anche lei ha percorso tutta l’ascesa mistica, fino a entrare in Dio. In quel famoso 16 luglio 1949 essa è fatta talmente uno da Gesù con lui stesso, da ritrovarsi là dove egli è, nel seno del Padre, in Paradiso. Più in alto di così non si può andare. Infatti, giunta in Paradiso, non ha più l’impressione di salire, ma di penetrare. È l’inizio di un lungo periodo nel quale ella “passeggia il Paradiso”, scoprendo sempre nuove sorprendenti realtà dell’infinito mistero della Trinità.
Sappiamo che quella esperienza mistica ha tante connotazioni di novità. La più evidente è la sua dimensione collettiva. Pochi momenti dopo essere entrata in Paradiso, rivolgendosi a Igino Giordani che era lì vicino, Chiara gli domandava: “Sai dove siamo?”.
Il mistico abitualmente racconta di dove lui si trova, perché non c’è niente di più personale del trovarsi in Dio propria dell’esperienza mistica. Lei invece parla al plurale. Non è sola nella sua esperienza, nel suo essere in Paradiso. Infatti, nei giorni successivi all’entrata nel seno del Padre, si vede insieme a tutte le altre anime unite a lei, quasi a formare un’anima sola, che vive la medesima esperienza mistica.
Anche nell’esperienza di Chiara, come per Riccardo di San Vittore, l’amore si fa deficiens, scende.
Difatti, il 20 settembre di quell’anno, dopo tre mesi in Paradiso, Chiara si sente dire: “Lascia il tuo Paradiso. Scendi. L’umanità ha bisogno di te, ti attende”.
E lei “scende”, scende dalle Dolomiti, ma soprattutto dal suo Paradiso, perché scopre un altro Paradiso. Scende dopo aver scritto quella famosa pagina: “Ho un solo sposo sulla terra: Gesù Abbandonato… In Lui è tutto il Paradiso colla Trinità… Andrò pel mondo CercandoLo…”.
Anche in questo lasciare il Paradiso per ritrovarlo nell’umanità, vi è un aspetto di novità. Se l’entrata nel Padre e il “viaggiare il Paradiso” era esperienza di corpo, di popolo, la discesa è nuovamente esperienza di corpo, di popolo.
Ed ecco l’immagine del “castello esteriore”, quasi pendant del “castello interiore” di Teresa di Gesù. Rivoluzione copernicana della mistica. Prima Sua Maestà lo si cercava nel centro dell’anima come in un castello interiore. Ora lo si scopre fuori dell’anima, tra anime che insieme costituiscono un castello esteriore con Sua Maestà che vive in mezzo alla sua comunità e la fa una attorno a sé.
Se questa è l’esperienza del Paradiso di Chiara, questa è anche l’esperienza della sua discesa dal Paradiso. Dio scende nel mondo non in un’anima, ma in un popolo. Gesù torna a vivere tra la sua gente. Non più un santo che cammina sulla terra, ma il Santo in mezzo a noi.

È questa la parabola completa della mistica. La salita al cielo per essere trasformati in Dio e da lì vedere il mondo con gli occhi di Dio e capire i disegni di Dio sull’umanità. Poi scendere per attuare quei disegni, vivere accanto ad ogni uomo e donna per renderli partecipi di quei disegni e poter camminare, insieme, verso la meta comune. È, come ha scritto Chiara in una suo notissima pagina, l’attrattiva del tempo moderno:
Ecco la grande attrattiva
del tempo moderno:
penetrare nella più alta contemplazione
e rimanere mescolati fra tutti,
uomo accanto a uomo.
Vorrei dire di più:
perdersi nella folla,
per informarla del divino,
come s’inzuppa
un frusto di pane nel vino.
Vorrei dire di più:
fatti partecipi dei disegni di Dio
sull’umanità,
segnare sulla folla ricami di luce
e, nel contempo, dividere col prossimo
l’onta, la fame, le percosse, le brevi gioie.
Perché l’attrattiva
del nostro, come di tutti i tempi,
è ciò che di più umano e di più divino
si possa pensare:
Gesù e Maria,
il Verbo di Dio, figlio d’un falegname,
la Sede della Sapienza, madre di casa.

mercoledì 9 febbraio 2011

un appuntamento da non mancare con Renata Borlone

Chiusura del processo diocesano di beatificazione.
Festa!
E presentazione del libro con la sua autobiografia

martedì 8 febbraio 2011

Che cosa conta?

“Ogni uomo è limitato, nonostante il passato e le responsabilità…
Che cosa conta allora, se non amare il Signore nell’attimo presente?”
Dal diario di Marcello Zago, 21 gennaio 1986.

lunedì 7 febbraio 2011

La mani forti di Dio, tra Crociate e Jihad


Un anno dopo aver alloggiato Francesco d’Assisi nel suo ospizio per pellegrini, Giovanni de Matha fece adornare il portale dell’ospedale con un mosaico ispirato alla visione che aveva avuto il giorno della sua prima messa: un angelo che posava le mani sul capo di due schiavi, un cristiano e un musulmano, a indicargli che avrebbe dovuto dedicarsi al riscatto dei prigionieri. Nel mosaico non è più raffigurato un angelo, ma lo stesso Signore, maestoso della gloria (lo sfondo oro del cielo e il trono regale), ma nello stesso tempo con le mani sulla terra.
Sono le sue mani che mi hanno colpito. Con esse afferra i due schiavi per i polsi, con una forza tale che sembra stritolarli. Gesù nel Vangelo aveva parlato di sé come di un uomo forte, capace di vincere l’avversario e di spogliarlo della sua armatura. E qui nel mosaico si mostra forte, energico nel rompere ogni catena e nel liberare da ogni prigionia e schiavitù. Non è di questo Gesù forte che abbiamo bisogno? Almeno io ne ho bisogno.
E poi non ti sembra sbalorditivo che tratti alla pari il cristiano e il musulmano, il bianco e il nero? Eravamo al tempo delle Crociate, la guerra santa dei cristiani. Dall’altra parte c’era la Jihad, la guerra santa dei musulmani. E c’erano cristiani fatti prigionieri e schiavi dei mori e musulmani fatti prigionieri e schiavi dei cristiani. Gesù avrebbe dovuto stare dalla parte dei cristiani. Invece per lui sono tutti figli suoi. Ecumenismo, dialogo interreligioso e integrazione etnica ante litteram. Per lui non c’è distinzione  tra cristiani e musulmani, bianchi e neri… Perché non ci prendiamo questo mosaico come programma per il nostro tempo?



domenica 6 febbraio 2011

Giovanni di Matha sulla porta Celimontana


In piazza san Giovanni in Laterano Giovanni di Matha incontrò un pellegrino povero che attendeva di essere ricevuto del Papa. Lo invitò a riposare e rifocillarsi nel suo ospedale presso l'Arco di Dolabella sul Celio: una lunghissima corsia illuminata da ventisei finestre. Correva l’anno 1209. Questa mattina, in 10 minuti a piedi, ho ripercorso il tragitto che fecero assieme san Giovanni di Matha e san Francesco d’Assisi. Dell’antico ospedale, dove venivano ospitati e curati i poveri, i pellegrini e gli schiavi riscattati, rimane soltanto il grande portale marmoreo con la famosa edicola che racchiude l'emblema a mosaico dell'Ordine dei Trinitari sormontato da una croce: Cristo in trono con ai lati due schiavi liberati, uno bianco e uno nero.
Accanto, l'Arco di Dolabella, che probabilmente costituiva la porta Celimontana delle mura Repubblicane del IV secolo a.C., poi utilizzato, in epoca neroniana, come sostegno per farvi passare sopra l'acquedotto dell'acqua Claudia.
In un pilone dell'acquedotto, proprio sopra l’arco, fu ricavata la cella, oggi trasformata in oratorio, dove s. Giovanni de Matha, abitò e nella quale si spense il 17 dicembre 1213.
Sono salito fin lassù. Ho ricordato i miei amici Trinitari di Roma, di Vienna, del Madagascar… e ho pregato san Giovanni, che liberava gli schiavi, di liberarci dalle nuove schiavitù di oggi: droga, prostituzione, bambini soldati, a volte internet, il potere, i soldi…
Com’è bella la Roma “carismatica”, quella dei santi. Guardata con i loro occhi ha un altro sapore.
Sono rimasto particolarmente colpito dal mosaico con Cristo in trono. Ma di questo, domani.

sabato 5 febbraio 2011

In Santa Maria Maggiore in buona compagnia

Tornando al mio convento, non ho potuto resistere al desiderio di entrare nella basilica di S. Maria Maggiore. L’ho percorsa per una mezz’ora senza fermarmi precisamente a nessuna cosa in particolare: ho gustato la bellezza di questo edificio…
Ripassando davanti a S. Maria Maggiore vi sono entrato per la quarta volta e mi ci sono fermato per più di mezz’ora. Non inizierò a fare la descrizione di tutto ciò che si vede in questa grande basilica: sarebbe troppo lungo e incompleto… Non ho mai visto dei marmi così belli come quelli che ornano la cappella della Santa Vergine: l’occhio non si sazia mai di guardarli…

È quello che avrei potuto scrivere oggi. Primo sabato del mese sono stato una mezza mattinata in S. Maria Maggiore, a pregare, a celebrare all’altare della Madre, cantando, il cuore mio, tutto l’Akatistos.
Sono parole che ha scritto Sant’Eugenio de Mazenod nel suo diario del 1825!

venerdì 4 febbraio 2011

Un nuovo libro sulla dimensione carismatica della Chiesa



Quando è nata la Chiesa?
Presente nel piano di Dio, essa esiste da tutta l’eternità. Se i suoi membri, come voleva sant’Agostino, vanno da Abele fino all’ultimo dei giusti, essa inizia nel tempo con l’inizio stesso dell’umanità. «Non credere – aveva già scritto Origene nel suo Commento al Cantico dei Cantici – che io parli della sposa e della Chiesa soltanto a partire dalla venuta del Salvatore nella carne, bensì ne parlo dall’inizio del genere umano e dalla stessa creazione del mondo, anzi per risalire più in alto all’origine del mistero sotto la guida di Paolo, addirittura prima della creazione del mondo». Essa è parte del Mistero, nascosto nei secoli, di ricapitolare tutto in Cristo (cf. Ef 1, 10).
Il Primo Testamento la annuncia e la profetizza attraverso tipologie di persone e avvenimenti, come pure attraverso molteplici immagini. È prefigurata nell’arca di Noè quale luogo di salvezza del genere umano; nell’esodo dall’Egitto e nel cammino verso la Terra promessa come popolo proteso alla Pasqua eterna; al Sinai come popolo dell’Alleanza; a Gerusalemme come Regno di Dio, comunità cultuale e santa. Nell’annuncio dei Profeti appare come fidanzata, vergine sposa, madre, Gerusalemme celeste, gregge, vigna…
Sapendo che è stata prefigurata nel Mistero, potremmo procedere nel domandarci: quando “storicamente” è nata la Chiesa?

Così inizia il mio nuovo libro... Buona lettura!

giovedì 3 febbraio 2011

I panettoni di san Biagio


Una volta il panettone si mangiava soltanto a Natale, mentre il panforte era asserbato per l’Epifania. Il pandoro ancora non si conosceva. Per il restante periodo natalizio avevamo i cavallucci, dolci poveri all’anice, che ora non si fanno più. Non c’era il problema di dover reciclare, con elaborate ricette, i panettoni avanzati.
Finché non arrivava il fatidico 3 febbraio, quando il babbo tornava a casa con due panettoni! Il giorno di san Biagio negozi di alimentari e pasticcerie li vendevano al prezzo di uno. Quel giorno il panettone era più buono che a Natale, forse perché non veniva dopo un pranzo solenne, oppure perché semplicemente aveva il gusto del quotidiano.
Chissà se nel tempo dell’abbondanza e dello spreco alimentare si potranno ritrovare i gusti genuini della sobrietà e del mangiare una fetta di panettone al solo scopo di fare festa insieme.

martedì 1 febbraio 2011

L'Essere come Amore

L’ambiente è uno dei più suggestivi di Roma. In questa sala, incastonata nell’Archivio di Stato e nel Senato della Repubblica, il giovane Montini si incontrava con i Padri della Costituente. Sant’Ivo alla Sapienza, con ardita cupola del Borromini e l’antica università, ha fatto da degna cornice alla presentazione del libro “L’Essere come Amore”, coordinato da Anna Pelli, frutto del seminario del gruppo dei filosofi della Scuola Abbà. La Sapienza è tornata in cattedra.

Attraversando piazza Navona per andare all’incontro mi domandavo: Cosa abbiamo scoperto prima, che l’Essere è Amore o che Dio è Amore? Poi ho ricordato il titolo del seminario da cui è nato il libro: “Soltanto l’Amore è”. Il primato è sempre e soltanto dell’Amore, comunque lo si pensi.