Quando il preside del Claretianum, nella
riunione del consiglio accademico, mi affidò il compito di tessere la laudatio
per il Dottorato honoris causa che sarebbe stato conferito a Chiara Lubich, provai
un profondo senso di gioia. Avrei potuto esprimere pubblicamente il mio grazie
a Chiara per tutto quello che aveva donato alla vita consacrata e a me personalmente.
Speravo fosse una sorpresa e pregustavo il momento in cui, salito sul podio,
davanti a lei avrei motivato il conferimento della laurea illustrando la
profondità della sua dottrina e la novità della sua opera di fondatrice. Pochi
giorni prima si ammalò improvvisamente, gravemente e partì per l’estero per le
cure necessarie. Il 25 ottobre 2004 venne una delle sue prime compagne a
ritirare il dottorato e a leggere la lezione magistrale che lei aveva preparato.
Esposi la mia laudatio nella fiducia che Chiara avrebbe almeno visto il video,
ma era diverso, lei non c’era.
Una malattia misteriosa quella di Chiara, che
la tenne lontano dai suoi per più di due anni. Anche quando tornò nella sua
casa a Rocca di Papa, per lungo tempo non la si poteva visitare. Cos’era questa
malattia, perché così prolungata, cosa stava vivendo?
Un giorno, nel maggio del 2007, una felice
coincidenza mi porta al Policlinico Gemelli di Roma dove Chiara è ricoverata
per dei controlli. Mi intrattengo nella sala d’aspetto conversando con la sua
segretaria, fino a quando vengono a chiamarmi: avrei potuto darle un breve
saluto. Entro nella stanza. Lei è seduta su una poltrona. È lei, la Chiara di
sempre. Mi saluta con un filo di voce e un tocco di umore: “Ecco Padre Fabio
che va in giro per il mondo!”. Sì, sono da poco tornato da Cuba e lei lo sa, mi
segue sempre. Le porto il saluto di un religioso brasiliano che ha appena
sentito a telefono e lei mi precede indovinando il nome: presentissima come
sempre! Sì, è la Chiara di sempre.
Ma come è diversa. Il volto smagrito
ingigantisce gli occhi belli, mai così grandi. La pettinatura è dimessa. Al naso
il tubicino che la alimenta. La parola non è nitida… Ma c’è qualcos’altro che
me la fa apparire diversa. Forse lo sguardo. Sì, lo sguardo. È come se tradisse
insicurezza, smarrimento. Mentre mi parla di tratto in tratto cerca con gli
occhi le due compagne che la vegliano quasi per trovare un sostegno nella
conversazione con me, pur così breve.
Dov’è la Chiara energica e sicura che ho
conosciuto da sempre? Per anni, assieme al gruppo di studio “Scuola Abbà”, ho avuto modo di incontrarla regolarmente,
ogni quindici giorni. L’ho frequentata dal 1973 e mi sono sentivo sempre particolarmente
prediletto (forse tutti quelli che l’hanno incontrata hanno avuto la stessa
impressione…). Ha sempre incoraggiato tutti, sostenuto tutti, guidato la sua
opera così vasta e complessa con sicurezza e braccio forte. E adesso… Dov’è la
Chiara che manda in delirio migliaia di giovani negli stati, nei palazzi dello
sport? La Chiara che parla davanti al Papa in piazza san Pietro a Roma, che gli
conduce in udienza centinaia di vescovi? La Chiara che incontra politici e capi
di stato, che riceve cittadinanze, che gira il mondo, di continente in
continente, che dialoga con leaders religiosi, che abbraccia le folle?
Ho incontrato una persona ormai anziana,
debilitata da una lunga malattia, in uno stato di fragilità che non avrei immaginato.
Eppure, stranamente, esco da quella stanza d’ospedale con una gioia indicibile,
catturato da quegli occhi che dicono soltanto amore; altro non hanno mai saputo
dire. E subito mi tornano in cuore alcune righe di una sua lettera, scritta
tanti anni prima, nel 1944, ad una persona ammalata:
«Gesù
ha convertito il mondo colla parola, coll'esempio, colla predicazione; ma l'ha
trasformato colla prova
dell'Amore: la Croce.
Lassù
per due ore e mezzo, in quello stato di tremenda angoscia e terribile dolore,
attirò i cuori a sé.
Credi,
(…) vale di più un minuto della tua
vita in quel lettino bianco, se con gioia tu accetti il Dono di Dio che è sempre:
dolore, che tutta l'attività d'un predicatore che parla e parla e poco ama
Iddio».
L’avevo letta questa pagina, tante volte,
meditata, spiegata nelle mie lezioni. Ora la vedo attuata da Gesù in Chiara, da
Chiara fatta Gesù, da Gesù fatto Chiara. E mi domando: quando questa donna
carismatica ha dato davvero vita nella Chiesa alla grande e nuova opera dei
Focolari? Quando appariva “vincente” e, piena di energie, dava orientamenti sicuri
al suo movimento, lo indirizzava saldo nel suo sviluppo nei cinque continenti?
O non adesso che non può più dirigere e organizzare, che non può scrivere e
donare i suoi temi, rispondere alle domande…? Comprendo in maniera nuova la più
bella parabola evangelica: in questo momento Chiara è il chicco di grano che
sta cadendo in terra e muore per portare molto frutto. È così che avviene la
generazione della vita.
Ne ho avvertito forte la conferma il giorno
del suo funerale, nella basilica di san Paolo fuori le mura. Al termine della
celebrazione, contro ogni protocollo, assieme a tanti altri sacerdoti ho potuto
inginocchiarmi a baciare la bara. L’ho poi accompagnata, inaspettatamente, con
il piccolo corteo, lungo la basilica, nel chiostro, all’esterno, fino alla macchina
che l’attendeva. Ho potuto così attraversare la folla che piangeva e gioiva in
una festa d’esultanza. Il corteo procedeva lento, si arrestava, pochi passi e
si arrestava di nuovo, dandomi il tempo per salutare tutti.
Ed ecco la sorpresa: mi sono accorto di
quante persone conoscevo, tra quelle migliaia che riempivano la basilica e la
assiepavano al di fuori. Ho stretto tante mani, ho ricambiato tanti saluti.
Persone non soltanto conosciute, ma con le quali mi sentivo legato da un
affetto sincero. E quelle che non conoscevo mi conoscevano e mi salutavano, chiamandomi
per nome, come uno della famiglia. Era il popolo di Chiara. Era come se vedessi
Chiara moltiplicata nella sua gente: sul volto di ognuno il volto di Chiara.
Ecco il chicco di grano caduto in terra e morto che porta il suo frutto, mi son
detto, ed ecco davanti a me la spiga piena.