Firenze, Villa Stella, in
Via Barbacane, una di quelle strade strette tra i muri immortalate da pittori
come Rosai. Vi ho vissuto i miei tre anni di liceo classico. Oggi vi sono
tornato. Ho rivisto l’antico mirto sotto il quale Dante si lasciava ispirare le
poesie d’amore, il salone affrescato con delicate scene paesaggistiche, l’ariosa
cappella dominata dal grande quadro dell’Immacolata dipinto nel 1800 da Anonio Ciseri,
il parco silenzioso che si apre sullo sfondo collinare di Fiesole… Vi sono
tornato per incontrare la nostra gente, quella che ama gli Oblati, il carisma
di sant’Eugenio, che condivide con noi il cammino del Vangelo. I giovani di
anni fa sono ora genitori e portano con loro i figli: un gran bel popolo di
tutte le età, tra i quali i giovani primeggiano come numero e come vivacità.
domenica 30 settembre 2012
sabato 29 settembre 2012
Padre Valentino: la vocazione dell’anziano
Così diceva p.
Valentino Ferrari:
L’anziano dovrebbe ritirarsi dal lavoro per dedicarsi a
consigliare e a pregare, a vedere le cose con quel distacco che può avere solo
l’anziano. Vogliamo vivere questa età di preparazione alla morte.
Quel tempo che ho sottratto, allora, alla preghiera e alla
lettura spirituale voglio che ci sia ora. Occorre pensare ad un corpo di
vigilantes, di quelli che si sentono alla vigilia della partenza, che non hanno
più un loro “mondo”, ossia l’ambito per cui lavorare. A questi tocca cercare di
vivere questo distacco interiore con le parole di coloro che si sentono del “mondo”
del Regno dei Cieli.
Sento di avere questo distacco, di vivere con quelli che
vivono con l’al di là. Impegniamoci con gli altri, donando i valori eterni:
“Non stiamo noi a mirare le cose che si vedono; quelle che si vedono sono
temporali , quelle che non si vedono sono eterne…” (Paolo). Noi facciamo tante
cose con cui battiamo l’aria, perché non cerchiamo unicamente il regno di Dio.
Il vecchio che vuole fare il giovane sbaglia. Si capisce il
bambino che vuole fare il grande perché un giorno lo sarà. Il vecchio che vuole
fare il giovane fa ridere.
Sto cercando di fare un altro passo: atteggiamento di
disimpegno. Passo la staffetta. Mi sono accorto che nel dire: ‘Ci pensino
loro’, c’era ancora un attaccamento. C’era il volere il regno di Dio, assistere
al Regno di Dio. Devo amare che questo Regno si sviluppi quando non ci sono
più, che avvenga quando non ci sono più. I fondatori si preoccupano
dell’avvenire, quando essi non ci saranno più. Penso che l’invocazione – ‘Sei
Tu, Signore, l’unico mio bene’ – sia questo.
Ho vissuto le sorti della Chiesa nel bene e nel male (ad
esempio ho patito per quanto è avvenuto in Russia a proposito della legge sulle
religioni tradizionali e sulle altre…). Ci sono ancora io dentro. Invece quel
che conta non è che sia io a vedere.
“Padre nostro… venga il tuo Regno”. Gesù ci insegna che
venga santificato il suo Regno, non a donarcelo… Solo così Lui è l’unico tuo
bene.
giovedì 27 settembre 2012
Domanda
La collatio vedeva i
sette anacoreti seduti in cerchio nel calmo meriggio. Apa Pafnunzio espose la sua
domanda, il suo dubbio. La risposta gli arrivò subito da uno dei fratelli,
sicura e perentoria, prima ancora che avesse terminato di formularla. La conosceva
già. Non aveva bisogno di risposta alcuna. Aveva bisogno di qualcuno che lo ascoltasse,
che lo accompagnasse nel dubbio, che vi si calasse dentro e lo aiutasse a
scendervi fino in fondo, ad articolare in modo nuovo la domanda, con sfumature nuove,
perché nuova, lentamente, germinasse la risposta.
Sul sentiero del ritorno
pensò alla grande domanda che era uscita dalla bocca del Signore rivolta al
Padre, lassù sulla croce: “Perché?”. Non ci fu risposta alcuna. Il Padre rimase
in silenzio. Forse lui stesso, riecheggiando la domanda, lui che già sapeva la
risposta, si domandò a sua volta: “Perché?”. La risposta, la risurrezione,
venne soltanto dopo, quando il Figlio era già inabissato sotto terra.
“Davanti all’ateo – si
disse allora apa Pafnunzio – devo farmi ateo, piuttosto che esporre le prove
dell’esistenza di Dio. Davanti al dubbio dell’altro devo diventare dubbioso a
mia volta, piuttosto che manifestare le mie certezze.
Condivido la domanda
dell’altro: è la mia domanda. Val più di una risposta sicura e perentoria”.
(I detti dei Padri del deserto di Scite, 49)
I giovani e i carismi
Il laboratorio della rivista "Unità e Carismi" a Loppianolab ha voluto aprire le porte ai carismi religiosi e al lavoro che nella storia e nell'attualità si fa con e per il mondo giovanile. C'è voglia di impegno e di fare che smentisce i luoghi comuni sugli under 30. Intervista a Costanzo Donegana, missionario del Pime.
Perché non vederla su youtube in 1 minuto e mezzo?
http://unitaecarismi.cittanuova.it/video_dett.php?TipoContenuto=video&idContenuto=421822
Perché non vederla su youtube in 1 minuto e mezzo?
http://unitaecarismi.cittanuova.it/video_dett.php?TipoContenuto=video&idContenuto=421822
mercoledì 26 settembre 2012
Perché Padre Valentino faceva parte dei Focolari?
Oggi ricordiamo il trigesimo della morte di p. Valentino Ferrari,
domenicano. Riporto stralci di una lettera che mi scrisse nel maggio del 2007 a
testimonianza del suo incontro con il Movimento dei Focolari.
Ho conosciuto il Movimento quando
avevo 24 anni non ancora compiuti. Fresco di ordinazione sacerdotale, ero un
giovane domenicano, mentre oggi sono in procinto di compiere ottantun anni! Ma…
“la farina della giara non venne meno e l’olio dell’orcio non calò” (cfr. 1 Re
17,16), caso mai crebbe il mio entusiasmo e la mia riconoscenza per il dono di
Dio!
Mi dirai forse: “Ma che cosa hai
ricevuto che già non avessi nel tuo Ordine? Avevi nelle sue ‘Costituzioni’ la
sapienza di S. Domenico, nella sua teologia, la dottrina di S. Tommaso, nella
sua letteratura ascetica, l’incanto e l’ardore di S. Caterina; avevi l’esempio
di tanti confratelli e consorelle che la Chiesa venera come Santi e Beati… Che ti
mancava?”
Ti dirò: lì per lì non capii; ero
come affascinato dalla vista di una grande luce (…) Poi ho capito che Dio aveva
predisposto per me quell’incontro, (…) per chiedermi il mio contributo a quel
che, nel Credo, chiamiamo la ‘comunione dei Santi’. Quest’idea (che non è solo
un’idea) della comunione dei Santi mi era parsa già qualche anno avanti, come
una strada per andare a Dio, per andarci insieme, farsi santi insieme. (…) Quindi
non ci saremmo salvati vivendo, ogni anima, ‘sola col Solo’, secondo un detto
ascetico, male interpretato, ma inserendoci in questo popolo, qual “Corpo di
Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte” (1 Cor 23,27).
Allora cominciarono a parermi
stonate certe affermazioni che qua e là sentivo: “Noi abbiamo la nostra
spiritualità, loro, la loro!”. (…) Ben presto però mi venne in mente quel tratto
della prima lettera ai Corinzi ove Paolo dice: “Mi è stato segnalato che tra di
voi ci sono divisioni (…) c’è chi dice:
io sono di Paolo; io invece, io Apollo; io, di Cefa… ed io di Cristo! Ma forse
Cristo è diviso? O forse Paolo è stato crocifisso per voi o è nel nome di Paolo
che siete stati battezzati? (1 Cor 1,10-11). E il paragone balzava chiaro: “Io
sono di Basilio; io, invece, di Benedetto; e io di Domenico; io di Francesco;
io di Ignazio; io, invece, dell’Ordine di S. Pietro (il sacerdote diocesano) ..
ed io, della Chiesa universale di Cristo! (il laico secolare)”. “Mamma mi - mi
dissi - e che ha di cristiano questo arcipelago di isole incantate, divise da
un mare in navigabile? Non è un corpo, la Chiesa ? E poi non ha detto il Signore: Uno solo è
il vostro Maestro, il Cristo? (Mt 23,10) (…)”
L’unità dei discepoli non può
restare un fatto ontico-sacramentale. Deve essere cosa visibile perché il mondo
‘conosca’. La rete di gallerie intercomunicanti deve essere illuminata, direbbe
Chiara. (…)
Mi sono ritrovato attorno tanti
fratelli e sorelle pronti ad aiutarmi, a dar la vita per me, come anch’io per
loro (…). Chi ha visto noi religiosi dell’Opera nei nostri convegni
internazionale, o nelle nostre ‘scuolette estive’ non ha potuto non accorgersi
che “l’unità è una cosa vera”, come diceva il nostro Micor. Con quanta
commozione osservavo, io, io volto luminoso di religiosi tedeschi e inglesi,
francesi e spagnoli, oltre che italiani, di quelli venuti “dalle tante vie del
mondo”. E quale sobbalzo nel vederli arrivare! E sentire che ovunque andavo,
avrei trovato un amico, un fratello…!
Da principio, nelle prime Mariapoli
dolomitiche, tenevamo i nostri abiti, e l’unità nella varietà incantava le
pope. Poi tra di noi ce li togliemmo perché le nostre differenze non ci fossero
di ostacolo ad incontrarci solo come anime a nudo, come semplici cristiani,
tutti figli di un unico Padre. E chi di noi sapeva quale ufficio o quale ruolo svolgesse
l’altro? Spesso fuori di qui ci si pensa distinguendoci per Ordine, per uffici,
per ruoli; quel che conta, la persona, scompare come dietro a una maschera! Ma
poi, scopertici fratelli, i carismi si sono ricomposti in armonia, apparsi
tutti belli nel grande mosaico della nostra comune Chiesa, nel suo manto
iridato dai riflessi d’oro! Da allora chi vuole viene liberamente col suo
abito.
Siamo infatti divenuti un corpo
solo, “una famiglia compose l’amore: è la famiglia che nutre Maria, mistico
corpo del dolce Gesù”. (…)
Dio mi ha fatto conoscere l’Opera
di Maria e io gli do lodo; nella mia “passione per la Chiesa ”, in cui Caterina mi
è sorella maggiore, al crepuscolo della mia vita, grido la mia gioia. Ringrazio
Lui, Maria e la sua e nostra Chiara, madre, sorella e figlia nella comune vita.
lunedì 24 settembre 2012
Un libro della Scuola Abbà
È stata una esperienza interessante
lavorare attorno al tema del “patto ‘49”. Ci siamo cementati insieme, tutti i
membri della Scuola Abbà, con lo stile che ci è proprio: ognuno degli autori
dona agli altri il proprio contributo, accoglie i rilievi dei colleghi, e
rielabora il testo tenendo conto dei suggerimenti.
Questa volta dovevamo commentare
l’esperienza mistica vissuta da Chiara Lubich nell’estate del 1949 segnata da
illuminazioni particolari, che è all’origine del Movimento dei Focolari. Tale
evento ha inizio con un “Patto di unità” tra lei e l’onorevole Igino Giordani
(16 luglio 1949). I nostri contributi commentano il racconto fatto da Chiara di
tale Patto secondo diverse prospettive di lettura che, spaziando dall’ambito
teologico, ecclesiologico, spirituale all’ambito letterario, sociologico,
giuridico, politologico, economico, ne offrono una attualizzazione ricca per la
vita della Chiesa, delle comunità ecclesiali, e per la società.
A me il compito di confrontare questo patto con
analoghi patti fondativi che sono all’origine delle comunità carismatiche. Pur
nella straordinaria unicità, il “patto” tra Chiara Lubich e Igino Giordani va
letto all’interno di un cammino più ampio, segnato da molteplici esperienze vissute
da Chiara e dal primo gruppo. Se è vero infatti che ogni carisma, nel
manifestarsi storico, ha un suo percorso ed una sua originalità, è altrettanto
vero che nel loro insieme essi mostrano delle costanti che, lette in una
visione unitaria, possono aiutare a comprendere meglio le singole esperienze
nella loro diversità. Nel mio contributo ho voluto saggiare alcune di queste
esperienze fondative per cogliervi eventuali analogie con il “patto del ’49”.
Nella prima parte ho portato l’attenzione (usando impropriamente e
provvisoriamente la parola “patto”) su alcune esperienze storiche, per brevi
cenni: 1. il patto tra Dio e la singola persona; 2. il patto per un comune
cammino nella via della santità; 3. il patto da cui nasce una comunità
carismatica. Nella seconda parte mi sono soffermato sul patto tra Chiara e
Igino Giordani per coglierne continuità e novità rispetto ad analoghe
esperienze. Sarà un percorso di tipo evocativo, che dovrà essere seguito da
analisi più approfondite.
Buona lettura!
domenica 23 settembre 2012
Presenza
Tu sei con noi.
Sei sempre con noi.
Sai tutto di noi.
Non siamo mai soli.
Come potremmo affrontare le prove
della vita
senza te?
Tu sei sempre lì, in ogni dolore.
Non siamo mai soli.
Sei sempre con noi.
Sei la nostra luce, la nostra forza.
Così pregò apa Pafnunzio.
(I detti dei Padri del deserto di Scite, 47)
sabato 22 settembre 2012
LoppianoLab: propositivo!
Siamo
alla terza edizione di LoppianoLab e ho avuto la fortuna e la gioia di
partecipare a tutte e tre. Un evento cui non si può mancare perché mostra
un’Italia diversa, in positivo. Nel pomeriggio di oggi un dibattito di grande
respiro, con sul palco persone autorevoli del mondo economico, politico,
istituzionale, giornalistico… Non mancheranno i resoconti sul web, sulla
stampa. E merita andare a cercarli. A me ha colpito l’assemblea che seguiva
interviste e interventi; un’assemblea fatta della gente d’ogni giorno,
semplice; persone che a prima vista sembrano impotenti davanti ai grandi
problemi che si stavano trattarli, eppure persone sensibili, capaci di creare
opinione, di essere fermento. Alla messa mi sono scorse davanti a centinaia per
ricevere la comunione, e ho avuto modo di contemplare un volto dopo l’altro:
sì, persone semplici e insieme di valore. Sono il grande patrimonio del
Movimento dei focolari.
Nella
mattinata, tra i tanti, il laboratorio della rivista “Unità e Carismi” dove
hanno partecipato una ottantina di persone che hanno interagito con interesse e
interventi sulla formazione religiosa dei giovani. Tra il piccolo gruppo di religiosi e religiose anche un monaco buddista. Siamo
passati dal mondo della scuola a eventi come la Giornata Mondiale della
Gioventù o il GenFest di Bubapest. Hanno avuto voce i giovani stessi e abbiamo
ricordato l’invito di don Bosco: «Trattiamo
i giovani come tratteremmo Gesù Cristo stesso». Chissà perché in questi
nostri incontri aleggia sempre aria di speranza.
La
serata si è conclusa con l’intervista a Maria Luce, Emmaus, a partire dal suo
libro-intervista appena uscito, che ho già avuto occasione di leggere. Un libro
coraggioso, che affronta le tematiche e le problematiche più acute e attuali
lette con sguardo femminile, che constata il ruolo margine riservato alla donna
nella Chiesa, che suggerisce con garbo la presenza di donne al Conclave... Non
sono rivendicazioni, quelle di Emmaus: la sua presenza è la dichiarazione di
una presenza nuova e significativa della donna. Che se ne prenda atto o no è
un’altra cosa. Il fatto c’è.
venerdì 21 settembre 2012
Burlo: alla ricerca delle proprie origini
Il preside tra il cappellano e il provinciale |
Gli studenti del liceo di
Mariengarden a Burlo sono contenti. Niente scuola! I loro professori si sono
assentati per due giorni per una sessione speciale: conoscere le radici
carismatiche della scuola. Abbiamo passato assieme momenti intensi nei quali ho
ripercorso con loro l’esperienza spirituale di sant’Eugenio, dalla quale sono
sorte una infinità di iniziative tra le quale anche l’esperienza formativa in
questa regione della Germania. Tutto il gruppo, professori giovanissimi che
sembrano studenti accanto ad altri già sperimentati, si sono posti in ascolto e
in ricerca dei valori che devono animare la loro scuola, in continuazione con
il cammino degli Oblati. Chi è stato colpito da un aspetto, che da un altro:
l’imprescindibile incontro con Cristo e la scoperta del suo infinito amore
personale per ognuno, il senso della sincera donazione di donazione di sé (non
è questa l’oblazione?), il desiderio di trasmettere i valori cristiani (non è
questa la missione?).
Sentendo la storia di Sant’Eugenio un professore mi ha detto: “Questo giovane di 25 anni, figlio di divorziati, senza futuro, smarrito… C’erano tutte le premesse per una crisi depressiva. Invece la scoperta di essere amato da Cristo ha dato senso alla sua vita. Ha trovato l’amore di Dio proprio in mezzo alle difficoltà e al dolore. Ho una figlia con il tumore, una tragedia. Anche in questo dolore posso trovare l’amore di Dio”.
Sentendo la storia di Sant’Eugenio un professore mi ha detto: “Questo giovane di 25 anni, figlio di divorziati, senza futuro, smarrito… C’erano tutte le premesse per una crisi depressiva. Invece la scoperta di essere amato da Cristo ha dato senso alla sua vita. Ha trovato l’amore di Dio proprio in mezzo alle difficoltà e al dolore. Ho una figlia con il tumore, una tragedia. Anche in questo dolore posso trovare l’amore di Dio”.
Ho poi condotto i
professori attraverso i più diversi Paesi del mondo a conoscere la presenza e
il lavoro degli Oblati. È stata anche per me una bella sorpresa mettere insieme
le foto dei posti che ho visitato in tutti questi anni, in una sorte di sintesi
missionaria. Le ho confrontate con le foto d’archivio di valore inestimabile
che di ogni regione raccontano le storie antiche dei nostri missionari.
Mi pare che i nostri
professori di Burlo siano ripartiti con maggiore consapevolezza della loro
missione, condivisa con gli Oblati.
giovedì 20 settembre 2012
A Burlo, in Germania, il giardino di Maria
È mezzanotte quando
scendo dalla macchina. Sono in aperta campagna, nel più profondo silenzio. Il cielo è terso
e la Via lattea, nel suo distendersi irregolare, brilla di luce vivissima. Al
mattino gli ampi spazi si popolano di giovani. La scuola di Burlo, in Vestfalia,
a pochi chilometri dall’Olanda, riprende vita.
Il primo monaco venne in
queste campagne nel 1220. Qualche anno più tardi arrivarono i Guglielmini,
sostituiti subito dopo dai Cistercensi, che hanno lasciato una loro
caratteristica chiesa slanciata e il monastero. Chiamarono quel luogo Mariengarden, giardino di Maria
Le vicende liete e
funeste si sono ripetute qui come altrove fino all’arrivo degli Oblati all’inizio
del 1900. Ora vi è il loro unico liceo di tutta Europa, che porta ancora il
nome di Mariengarden. Gli ambienti scolastici sono moderni, dislocati in diversi
edifici in una grande estensione di prati e boschi. C’è anche il padiglione per
le lezioni di musica e d’arte. L’ultima costruzione è il grande auditorium con sale
d’incontri, mensa, biblioteca..., dove si tiene un fitto programma di eventi
anche per la vicina cittadina. 800 gli studenti che arrivano ogni giorno da un
raggio di venti chilometri. Un edificio è adibito ad accoglienza di studenti di
altre scuole che vengono da diverse parti per qualche giorno di studio o di
ritiro.
Esco nella piazza
centrale al momento dell’intervallo per gustare il ronzio degli studenti.
Particolare punto di attrazione i banchi con la vendita di fette di torta per
raccogliere i soldi in vista di una loro certa festa. I due cappellani Oblati
sono in mezzo a loro come sempre. Sono rimasti gli unici Oblati che lavorano
nella scuola. Anche il direttore non è più Oblato, ma un carissimo signore che
mi accoglie con una festa infinita e con un po’ di lingua italiana; mi pare più
Oblato degli Oblati. Mi porta a visitare i vari padiglioni. Mi sorprende vedere
alcuni genitori che fanno volontariato permettendo ad esempio il funzionamento
della biblioteca.
Visto che gli Oblati non
insegnano più occorre assicurare una formazione oblata ai professori in modo
che portino avanti l’istituzione – una delle più rinomata in tutta la regione –
secondo l’ideale oblato. Ecco perché nel pomeriggio ci portiamo con una
sessantina di loro a Freckenhorst
per passare due giorni insieme a riflettere sulla vocazione oblata.
Lungo la
strada attraversiamo Münster, una città invasa da biciclette, con semafori
apposta per loro, con parcheggi per loro ovunque… mi pare d’essere in Cina
(almeno la Cina che ho visto tanti anni fa, adesso…). Fino ad un bel centro
della diocesi, circondato, come tutto il paesaggio che ho visto finora, da
fattorie e boschi. Ovunque testimonianza di una fede antica e radicata: edicole
della Madonna, statue del Sacro Cuore, Crocifissi.
martedì 18 settembre 2012
Donne al Concilio
Rosemary Goldie |
Il grande Yves Congar voleva inserire nel documento conciliare sui laci una
belle espressione con la quale le donne erano paragonate alla delicatezze dei
fiori e ai raggi del sole, “Padre, lasci da parte i fiori – disse Rosemary
Goldie, che ho avuto la gioia di avere come professoressa al Laterano –. Ciò che
le donne vogliono dalla Chiesa è di essere riconosciute come persone pienamente
umane”.
Erano 23 le donne invitate al Concilio come uditrici: 10 religiose e 13
laiche, di cui 9 nubili, 3 vedove, 1 sposata con il marito ancora vivente.
Non potettero mai prendere la parola in assemblea, neppure per ringraziare
di essere state invitate eppure il loro contributo fu determinante: per il
capitolo IV della Lumen gentium sui
laici, sulle parti della Gaudium et spes
sul contributo dei credenti alla costruzione della città umana, sul decreto riguardante
l’apostolato dei laici…, ma anche per tanti altri aspetti del dibattito
conciliare. A un gruppo di donne che rivolsero ad una delle “madri del Concilio”
per chiedere che di interessarsi delle cose che riguardavano le donne questa
rispose: “Allora ci interesseremo di tutto”. La tentazione è sempre quella di
relegare le donne nella Chiesa a trattare le tematiche che riguardano le donne,
non sapendo che tutte le tematiche le riguardano e su tutte hanno da offrire il
loro contributo.
lunedì 17 settembre 2012
Voi, chi dite che io sia? La risposta di Daniel / 2
Padre Daniel (a sinistra) assieme al superiore generale |
Abbiamo festeggiato i 50 anni
di oblazione di P. Daniel Corijn. Davanti alla domanda di Gesù a Pietro che la
liturgia di oggi ci ha riproposto, p. Daniel ci ha riproposto un passo della
nostra Regola che “durante i 50 anni della mia vita Oblata è stato sempre la
mia ispirazione profonda”:
Dopo aver commentato il primo punto della Regola - gli
Oblati si impegnano a conoscerlo più
intimamente - P. Daniel Corijn è passato al
secondo: si impegnano… a
immedesimarsi con lui, a lasciarlo vivere in loro. Sforzandosi di riprodurlo
nella loro vita.
Immedesimarsi con Cristo. Qui non parliamo più di una
conoscenza intellettuale, ma di una decisione di vivere come lui. Tutta la
nostra vita deve essere una imitazione della vita di Cristo e non soltanto una
imitazione ma una vera vita di Cristo in noi. Le espressioni della Regola
chiedono a noi tutto ciò che abbiamo e tutto ciò che siamo. Sono parole di una
radicalità straordinaria. È un grandissimo ideale, per il quale dobbiamo
impegnarci giorno dopo giorno. Non è
facile,ma la nostra vocazione come religiosi, come consacrati, ci domanda di
andare avanti in questa direzione, ci chiede di immedesimarci con Cristo.
domenica 16 settembre 2012
Voi, chi dite che io sia? La risposta di Daniel / 1
Abbiamo festeggiato i 50 anni
di oblazione di P. Daniel Corijn. Davanti alla domanda di Gesù a Pietro che la
liturgia di oggi ci ha riproposto, p. Daniel ci ha riproposto un passo della
nostra Regola che “durante i 50 anni della mia vita Oblata è stato sempre la
mia ispirazione profonda”:
Per essere suoi
cooperatori, si impegnano a conoscerlo più intimamente, a immedesimarsi con
lui, a lasciarlo vivere in loro. Sforzandosi di riprodurlo nella loro vita,
vogliono essere obbedienti al Padre, costasse anche la morte, e si mettono al
servizio del popolo di Dio con amore disinteressato.
Lo ha commentato in tre punti:
1. Conoscere Cristo intimamente. Nella mia vita come Oblato
ho sempre voluto approfondire la domanda: “Chi è Gesù Cristo per me oggi?”.
Così, ad esempio, nell’anno sabbatico che ho avuto la grazia di ricevere nel
1998-1999, ho seguito un corso in Cristologia, sono andato, da solo, in Terra
Santa per 5 settimane, e ho fatto un ritiro di 30 giorni. In questo modo ho
cercato di attuare quanto dice la Regola (C. 36): “In unione con Maria
Immacolata…, e sotto la guida dello Spirito Santo, gli Oblati approfondiranno
la loro intimità con Cristo…”.
Certo, questo rimane sempre un cammino da fare, una sfida da
realizzare, una meta da raggiungere, e nessuno di noi mai arriva a conoscere
perfettamente, qui sulla terra, il mistero del Dio-uomo Gesù Cristo, ma sempre
dobbiamo crescere in questa intimità con il Signore.
sabato 15 settembre 2012
Ritorno a Milano… con il nome scritto in cielo (speriamo)
Questa mattina ho incontrato il
Cardinale Dionigi Tettamanzi ritiratosi
a Villa Sacro Cuore a Triuggio. Un’anima solare, un volto luminosissimo, un
cuore d’oro. Quando lasciò la guida della diocesi di Milano nell’omelia ricordò:
«Fin
dall’inizio del mio servizio episcopale ho voluto incoraggiare ad assumere con
grande serietà la sfida di annunciare ancora e sempre il Vangelo..., non tanto
con le parole, ma innanzitutto con una testimonianza personale della verità di
Gesù Cristo e della bellezza della fede in una società che è in cerca di
speranza». È quanto ha fatto lui stesso venendo a salutare il
convegno dell’USMI, CISM, CIIS, tutto il fronte della vita consacrata lombarda.
Ero lì attirato dal titolo del
convegno: “Concilio Vaticano II e Vita Consacrata: a cinquant’anni dall’inizio
di un evento profetico”. Avevo accettato di offrire una mia relazione – “Le
radicali proposte di rinnovamento del Concilio Vaticano II alla Vita
Consacrata: come viverle nella complessa società attuale?” – anche per una
specie di riscatto morale. Ero
venuto a parlare a Milano 30 anni fa, alla facoltà teologica dell’Italia
settentrionale. Fui contestato. Da allora non sono più tornato a Milano.
Oggi mi è stata offerta un’altra chance, e grazie a Dio è
andata bene.
Ho così potuto visitare questa famosa casa di Triuggio e
godere, da bel mezzo della Brianza, la visione delle Prealpi appena innevate e,
dall’altra parte, lontani i grattacieli di Milano.
Appartenuta alla famiglia di Antonio Morigia che assieme
a Sant’Antonio Maria Zaccaria aveva fondato l’Ordine dei Padri Barnabiti, la
villa fu lasciata ai questi religiosi. Ospitò
San Carlo Borromeo e il suo confessore Sant’Alessandro Sauli, divenuto Vescovo
in Corsica e difensore dell’isola sempre minacciata dai Turchi. Dopo la soppressione Napoleonica la
casa fu riscattata dalla Compagnia
di Gesù e da allora divenne casa di esercizi. Oggi in mano alla diocesi di
Milano, continua la sua missione ed è, come scriveva Martini “luogo nel quale
accogliere il popolo di Dio per accostarlo alla Parola del Signore, per fargli
gustare, per insegnargli a leggere la propria vita nella Sua Luce".
Al termine del convegno, l’incaricato della casa, vedendo sul tavolo della
sala la scritta con il mio nome, assieme a quelli dei presidenti, esclama a
gran voce: “Chissà se i vostri nomi sono scritti anche in cielo!” Questo solo
vale. Infatti poco dopo, vedo le scritte gettate nel cestino…
venerdì 14 settembre 2012
Sorprese all'abbazia di Seregno
Quante sorprese oggi. Sembrava un giorno di routine e invece.
Parto da Roma con pioggia e freddo e giungo a Milano con un
bellissimo sole caldo: l’Italia si è capovolta. Per la prima volta parto dalla
stazione di Roma Tiburtina, completamente ristrutturata, bella, moderna,
efficiente. Scendo per la prima volta alla stazione di Milano Porta Garibaldi,
completamente ristrutturata. Fuori i grattacieli appena sfornati mi dicono
subito che Milan l’è un gran Milan. Mi aspetta suor Anna, mia ex studente di
una decina d’anni fa: ci riconosciamo ancora.
Lasciamo la città verso la Brianza. Lungo la strada un
cartella indica a pochi chilometri Seregno. “Seregno? Mi dice qualcosa questo
nome. Non c’è una abbazia che pubblica una collana di studi monastici?”. “Certo,
l’abbazia di Seregno, appunto”. Prima inattesa sorpresa. Posso passare di qua
senza visitarla?
Costruita a fine 1800 dai Benedettini Olivetani in aperta
campagna ora è completamente inserita nell’assetto urbanistico della cittadina.
L’ingresso immette, come d’obbligo, nel negozietto dell’erboristeria, con i
soliti unguenti miracolosi contro ogni tipo di mali, liquori colorati, miele,
caramelle; tutto produzione locale. Un monaco mi fa visitare infatti i vari
laboratori, eccetto quello dei liquori, rigorosamente chiuso a chiave. Ma c’è
anche un locale dove si tengono corsi per dipingere le icone (tecnicamente si
dice “scrivere” le icone). Uno sguardo al chiostro, alla sala capitolare, alla
biblioteca.
E qui seconda sorpresa. Trovo il vecchio abate, Dom Valerio
Cattana, che ha avviato e condotto la collana di scritti monastici che conta
oltre 40 volumi. Poco più che ottantenne irradia una gioia e una pace
straordinarie. Mi accoglie come fossimo amici di vecchia data e mi fa una festa
indicibile. Dice di conoscermi, che sono famoso per i miei scritti… ma forse lo
fa soltanto per farmi sentire importante. Che bello trovare un monaco che ti fa
vedere come seguire Gesù fa fiorire al meglio l’umanità.
E scatta la terza sorpresa. Parlando della collana metto in
luce Jean Leclercq, uno dei più grandi eruditi e studiosi del monachesimo
medievale, come ormai non ce ne sono più, e dico all’abate che è stato mio
professore. Dom Valerio Cattana mi guarda compiaciuto e mi rivela che è stato
suo amico, che è stato lì, che lui è andato nella sua abbazia in Francia… e
subito mi regala un volume di quasi 2000 pagine edito recentemente: le lettere
di Jean Leclercq. Le aveva lasciate a lui prima di morire, come all’amico
fidato. 400 pagine sono lettere alla mamma, 200 lettere indirizzate a lui… Stasera
non posso leggerle tutte… Sono una frase scritta alla sorella poco prima di
morire: “Più si studia la fede, più se ne resta stupefatti. È stata la gioia di
tutta la mia vita. Grazie Signore”.
Grazie Signore d’avermi aperto le porte di questa abbazia
semplice, grazie d’avermi aperto il cuore dell’abate Dom Valerio Cattana.
giovedì 13 settembre 2012
Dopo il Concilio: stanchezza o profezia?
Il clima di grande apertura, di
rinnovamento, di speranza in quella Chiesa dei poveri che Papa Giovanni
annunciava è ancora vivo? La Chiesa di oggi, e in essa la vita consacrata,
continuano ad essere animati dalla Pentecoste conciliare? Se confrontiamo le
attese del giovane Carlo Martini con la sua ultima intervista, appare evidente un
grande divario: «La Chiesa è stanca, nell'Europa del benessere e in America. La
nostra cultura è invecchiata, le nostre Chiese sono grandi, le nostre case
religiose sono vuote e l'apparato burocratico della Chiesa lievita, i nostri
riti e i nostri abiti sono pomposi… La Chiesa è rimasta indietro di 200 anni.
Come mai non si scuote? Abbiamo paura? Paura invece di coraggio?».
Nello stesso tempo non si possono ignorare i frutti maturati nella stagione
post-conciliare. In maniera meno appariscente degli anni Settanta, il
rinnovamento è proseguito con tenacia, grazie anche al lungo e coraggioso
magistero di Giovanni Paolo II. La Parola di Dio è tornata ad essere pane
quotidiano, la coscienza di appartenere insieme a un unico popolo di Dio è
acquisita, il dialogo ecumenico, interreligioso, con la società contemporanea
si è affermato, sono nati nuovi gruppi carismatici, si sono aperte nuove strade
della carità e del servizio…
Quello che è cambiato è il contesto sociale. Nuove guerre, terrorismo,
instabilità politica, sfiducia nelle istituzioni, recessione economica,
relativismo morale, scandali all’interno della Chiesa stanno creando un clima
di incertezza, sfiducia, pessimismo, mancanza di progettualità e di volontà di ripresa.
Sembra di essere agli antipodi rispetto ai tempi del Concilio.
Non è proprio questa la situazione più propizia perché le comunità
cristiane tornino a compiere la sua missione profetica, si renda nuovamente
capace di parlare di Dio, di annunciare la “buona notizia”, di infondere speranza,
di ridare senso alla vita, di additare la meta della storia umana?
mercoledì 12 settembre 2012
Il nome di Maria, il nome degli Oblati
Nella festa del nome di Maria gli Oblati ricordano con gioia che è la festa anche del loro nome, come scrive sant’Eugenio de Mazenod:
Maria
Immacolata... Non vi sembra un segno di predestinazione avere il nome di Oblati
di Maria, cioè consacrati a Dio sotto la protezione di Maria di cui la
Congregazione porta il nome come un nome di famiglia che divide con la
Santissima e Immacolata Madre di Dio? C'è da provocare gelosie; ma è stata la
Chiesa a darci questo titolo e noi lo accogliamo con rispetto, amore e
riconoscenza, fieri della nostra dignità e dei diritti acquisiti alla protezione
di colei che è onnipotente presso Dio.
Oblato di Maria Immacolata, un
passaporto per il cielo! Riconosci che è davvero glorioso e consolante esserle
consacrati in questo specialissimo modo e di portare il suo nome...
Rallegriamoci di portare questo nome».
martedì 11 settembre 2012
La trasparenza di apa Pafnunzio
L’indomani
sarebbe passata la carovana e si sarebbe accampata non poco distante dalla sua
cella. Apa Pafunzio avrebbe portato le ceste e le corde che aveva intrecciato
nei mesi precedenti e avrebbe ricevuto in cambio farina, sale, olio, sementi,
quanto gli sarebbe bastato per il magro sostentamento. I mercanti, dopo avere
accesi i fuochi per la notte, si sarebbero avvicinati, si sarebbero seduti alla
porta della cella e come ogni volta gli avrebbero chiesto: “Cosa dobbiamo fare,
apa, per salvarci?” e lui, come ogni volta, avrebbe aperto loro il cuore.
L’indomani però
avrebbe voluto fare di più: essere soltanto trasparenza, cristallo di luce.
Avrebbe voluto sparire perché solo il suo Signore apparisse agli occhi dei
mercanti. Fu questa la sua preghiera nella notte:
“Non vedranno le
mie colpe: la tua misericordia le ha bruciate.
Non vedranno
doppiezza: il cuore l’hai unificato, l’hai orientato a te, interamente.
Non pensieri
nascosti: un solo pensiero, il tuo.
Vedranno il
disegno tuo di me, da sempre pensato, che crei vivo di giorno in giorno e si fa
storia con tocchi sempre nuovi.
Vedranno la vita
tua che nasce e cresce e sempre si rinnova.
Vedranno te”.
lunedì 10 settembre 2012
Quella parola che dà pace e inquieta
Era stato l’ultimo vangelo imparato
a memoria; l’ultimo perché il più difficile da ritenere. Marco l’aveva appreso subito,
non soltanto perché il più breve; le parole erano concatenate l’una con l’altro,
facilmente memorizzabili nella loro sequenza. Aveva impiegato tempo per il
Vangelo di Giovanni, ma ne era valsa la pena, il vangelo mistico.
Da alcuni giorni, non sapeva
bene perché, non riusciva ad andare oltre il capitolo quinto, non perché non
ricordasse il seguito, soltanto perché quelle parole lo attiravano. Le
declamava a fior di labbra, poi le ripeteva in silenzio, fino a quando si
dissolvevano nel cuore e ne rimaneva l’essenza profumata. Ogni volta lasciavano un sapore
nuovo ed aprivano a nuovi misteri.
“Voi scrutate le Scritture… ebbene,
sono proprio esse che mi rendono testimonianza”. Era dunque leggendo le
Scritture che Gesù, nella sua umanità, aveva preso coscienza di chi fosse veramente.
E lui, apa Pafnunzio, in quale altro luogo poteva andare per conoscere
veramente se stesso? Era giunto nel deserto, tanti anni addietro, proprio per
questo. Ora gli era chiaro che l’unico luogo veritiero, l’unico specchio
fedele, era la Parola di Dio. Per questo non si stancava mai di ripeterla. Lì
apprendeva d’essere figlio di Dio; nientemeno!
Glielo diceva
ancora una volta proprio quel capitolo di Giovanni: “Chi ascolta la mia parola…,
ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla
vita”. Che pace gli davano le parole di Gesù!
Nello stesso
tempo lo inquietavano. Proprio da quel capitolo uscivano parole che lo
inquietavano: “Voi non volete venire a me per avere la vita”, “Non avete
in voi l'amore di Dio”. Erano parole rivolte ai Giudei, ma potevano
essere rivolte anche a lui.
Pace e inquietudine,
gioia di sapersi amato e timore di non sapere amare. Perché sempre così
contrastante la Parola di Dio? Lo era stata anche per lo stesso Giovanni: non
aveva egli detto nell’altro suo scritto, l’Apocalisse, che nella sua bocca le parole di Dio
erano dolci come il miele, ma una volta ingerite gli procuravano crampi atroci?
Era questo il
destino della Parola, dissetare e assetare, far trovare e spingere alla
ricerca, in una tensione costante verso l’incontro ultimo, verso il bacio dello
Sposo, quando quella bocca non pronuncia più parola, portando nella pienezza
dell’unione ineffabile. (I detti dei Padri del deserto di Scite, 44)
domenica 9 settembre 2012
L’Archivio Segreto (mica tanto) Vaticano
I sigilli dei duchi, marchesi,
conti e baroni alla supplica
di Enrico VIII a Clemente VII
|
Segreto nel senso di personale (da cui “segretario”). Il
papa ha il suo archivio personale: 85 km lineari di scaffali. Per la prima volta
100 originali e preziosissimi di questi documenti, che il Vaticano conserva e
protegge da secoli, sono rimasti esposti per sei mesi, fino a questa sera nelle
splendide sale dei Musei Capitolini di Roma.
La mostra è stata organizzata in occasione del IV Centenario
dalla fondazione dell’Archivio Segreto Vaticano ed ha esposto documenti che
coprono un arco temporale che va dall’VIII secolo d.C. fino al XX secolo.
Tra codici e pergamene, registri e manoscritti, testi vergati
su cortecce di betulla o su seta, si resta affascinati nel costatare i vasti
rapporti del papato con le persone le più impensate e di tutte le parti del
mondo, da Federico II agli indiani del Canada, dagli imperatori della Cina alla
principessa Sissi, da Bernardette a Mozart. Un cammino avvincente tra le carte
di processo di Galileo e di Giordano Bruno, tra quelle di Lutero e di Maria
Stuart. Puoi ammirare documenti originali che mai avresti immaginato di vedere:
la regola di san Francesco, il rotolo di sessanta metri del processo dei Templari,
la bolla di spartizione del mondo dopo la scoperta di Cristoforo Colombo, la
richiesta di divorzio di Enrico VIII con decine di sigilli dei membri del
parlamento, la rinuncia di Celestino V al papato, la rinuncia di Cristina di
Svezia al trono, l’ultima lettera di Maria Antonietta prima di essere ghigliottinata…
Documenti esteticamente bellissimi… Un inestimabile patrimonio
culturale dell’umanità.
sabato 8 settembre 2012
8 settembre 1990: La tavola
A Prato oggi è la Madonna della fiera! La festa più grande,
assieme a quella di santo Stefano. La città si riversa per le strade, ritrova i
suoi colori medievali, si veste in costume, fa suonare le chiarine e rullare i
tamburi, sventola i suoi stendardi. Sul pulpito di Donatello, all'angolo
esterno della facciata della cattedrale, sfilano paggi, prelati e autorità in
grande uniforme, fino al momento solenne quando il vescovo, paludato con i
broccati antichi, mostra al popolo adunato in piazza la preziosa reliquia del
Sacro Cingolo della Vergine. Ogni Pratese verace non può mancare all'Ostensione
del Sacro Cingolo. In fatto di fede ognuno è libero di mantenere le sue
personali convinzioni, ma non può non "credere" a questa reliquia. La
tradizione è tradizione e va rispettata!
A casa è festa nella festa. Ogni anno ricordiamo con
semplicità e affetto l'anniversario di matrimonio dei nostri genitori. Mi
rivedo quando, ancora ragazzo, la sera dopo l'Ostensione sono tornato a casa
con il mio primo mazzo di garofani. Anche quest'anno sono riuscito a non
mancare all'appuntamento.
Oggi la sorpresa me
l'hanno fatta trovare i genitori. Hanno abbattuto il muro divisorio tra due
stanze per farne una più grande. Perché una stanza grande proprio ora che tutti
i figli sono partiti da casa ognuno per la sua strada? Perché ogni tanto
vogliono riaverli nuovamente accanto, solo che adesso ci sono anche i generi, i
nipoti… La famiglia si è fatta grande e non c'entriamo più nel vecchio tinello.
Hanno comprato anche una tavola nuova, lunga, capace di raccoglierci attorno.
Eccoci qua questa sera di festa, tutti assieme.
È una tavolata chiassosa. Ognuno ha la sua da raccontare.
Prima tocca a me, sottoposto a interrogatorio di quarto grado, perché vengo da
lontano: "Che si dice a Roma? Come sta il Papa?…". Poi le notizie dei
parenti. Quindi i più piccoli, che hanno sempre un episodio carino successo
durante l'estate o l'anno scorso a scuola.
A metà cena si procede già a ruota libera. Conversazioni
fitte, intrecciate, condite di risate improvvise. Ormai è tutto un parlottio
festoso.
Due persone soltanto rimangono in silenzio: il babbo e la
mamma. Lui è seduto a capotavola, mite, con un sorriso lieve lieve a fior di
labbra, aureolato nei suoi capelli bianchi. Lei gli siede accanto e da lì si
muove discreta tra la cucina e la tavola, in un perpetuo servizio di cui non si
avverte il peso ma soltanto la gioiosa premura.
Non hanno niente da dire, loro?
Hanno da ascoltare. O meglio, da godersi la famiglia. Non è
tanto importante quello che noi abbiamo da dirci. Per loro è importante che
siamo insieme, affratellati da amore sincero, senza ombre. Mi pare di capire
che per loro è il momento di gioia più intenso: vedere la famiglia unita.
Non posso fare a meno di pensare che anche Dio è padre, è
madre. Forse anche per lui il momento di maggiore gioia sarà vedere i figli
suoi uniti, che si vogliono bene. Anche lui ha abbattuto un muro che divideva i
popoli per fare di tutti uno. E il Cielo? Non ci ha detto che sarà una grande tavola
dove ci sederemo tutti insieme, proprio come questa sera qui in casa? Sarà
seduto a capotavola proprio come ora mio papà, e ci servirà proprio come fa ora
mia mamma. E non dirà niente. Sarà tutto intento a godersi la famiglia.
Posso dargli gioia fin d'ora, radunandogli attorno, a
tavola, quanti incontro, fratello di tutti, tutti affratellando. Non ho altra
missione.
venerdì 7 settembre 2012
Concilio: una boccata d'aria fresca
L’evento Concilio non soltanto spalancava l’orizzonte della Chiesa sul mondo intero, ma faceva sperare anche in un rinnovamento all’interno della Chiesa, annunciato profeticamente da quella parola di Giovanni XXIII che presto divenne l’emblema del Concilio: “aggiornamento”.
Il cardinale Roger Etchegaray ama ricordare un aneddoto citato da più parti. A un giornalista che chiedeva a Giovanni XXIII cosa si aspettasse dall’imminente Concilio, il papa avrebbe risposto: "Non lo so molto bene"; poi, portando il visitatore presso la finestra, la aprì: "Almeno… un po’ d’aria fresca!". «In questa immagine, commenta il cardinale, c’è forse tutta la forza profetica di un vecchio papa deciso a ringiovanire e ad aggiornare la Chiesa».
giovedì 6 settembre 2012
Lo stile del Concilio: un linguaggio che la gente possa capire
Dovendo dialogare con gli uomini e le donne
del nostro tempo e proporre ad essi la verità evangelica, il Concilio doveva
necessariamente adottare un linguaggio adeguato. Ecco allora l’abbandono el linguaggio tecnico e giuridico caratteristico dei concili precedenti e della
neoscolastica per uno stile più evangelico, che dice le verità di sempre,
attinte dalla Scrittura, e nello stesso tempo comprensibili, ispirati al dialogo, sul tipo
del modo di parlare utilizzato dai Padri della Chiesa.
Giovanni XXIII, nel discorso
inaugurale del Concilio, indicava già l’importanza di una nuova forma di
linguaggio: “la dottrina certa ed immutabile, che deve essere fedelmente
rispettata, sia approfondita e presentata in modo che risponda alle esigenze
del nostro tempo. Altra cosa è infatti il deposito stesso della fede, vale a
dire le verità contenute nella nostra dottrina, e altra cosa è la forma con cui quelle vengono
enunciate, conservando ad esse tuttavia lo stesso senso e la stessa portata.
Bisognerà attribuire molta importanza a
questa forma e, se sarà necessario, bisognerà insistere con pazienza nella
sua elaborazione”.
Presentando nell’aula conciliare il
testo della Gaudium et spes il
cardinal Garrone prendeva atto che fortunatamente “sono sempre più numerosi i Padre che
desiderano uno stile diretto, semplice, pastorale, e per quanto possibile
comprensibile da tutti”.
Ciò
che si domandava, allora come oggi, è saper ascoltare Dio, per dire le cose di Dio,
e saper ascoltare la gente per proporre le cose di Dio con il linguaggio della
gente, che interessi la gente e che risponda alle attese della gente.mercoledì 5 settembre 2012
Un Concilio che simpatizza con il mondo di oggi
Alla vigilia del Concilio il
cardinale Léger di Montréal indirizzò a Giovanni XXIII una Supplica firmata
anche da altri cardinali (Frings, Döpfner, König, Alfrink, Suenens e Liénart),
nella quale si chiedeva “il rispetto verso tutti, anche verso coloro che sono
nell’errore o che condividono solo una verità troppo parziale, un atteggiamento
di profonda benevolenza verso tutti i valori umani autentici, un atteggiamento
accogliente verso ogni verità, da qualunque parte venga, che siano grandi
culture non cristiane, scienze e tecniche nuove del nostro tempo, valori
cristiani conservati presso i nostri fratelli separati o valori religiosi
autentici, nascosti nel cuore di alcune religioni non cristiane”. Si chiedeva una
“sollecitudine verso gli uomini, un atteggiamento di simpatia, di apertura, di
partecipazione, di accoglienza di tutte
le ricchezze di questo mondo…”
Oggi ho letto che già nel 1936 Teilhard
de Chardin scriveva: “Che il Cristianesimo accetti finalmente senza reticenze
le nuove dimensioni (spaziali, temporali, psicologiche) del Mondo attorno a
noi. Non si converte se non quello che si ama. Se il cristiano non è in
completa simpatia col mondo nascente, se non prova in se stesso le aspirazioni e
le ansietà del mondo moderno, se non lasciare crescere nel suo essere il senso
dell’umano, non realizzerà mai la sintesi liberatrice tra la terra e il cielo
da cui può nascere la manifestazione ultima del Cristo universale… Immergersi per emergere e sollevarsi. Partecipare per sublimare. Questa è la legge stessa dell’Incarnazione”.
Il Concilio, a cominciare dal
discorso d’apertura di Giovanni XXIII, ha rivolto questo sguardo di “simpatia”
e d’amore, di solidarietà e di condivisione verso la società contemporanea. “Le gioie e le speranze – scriverà il Concilio nel suo
ultimo documento, la Gaudium et spes –,
le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi, dei poveri soprattutto e di
tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le
angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi
eco nel loro cuore”.
Non
possiamo rinnegare il Concilio!
martedì 4 settembre 2012
Aria fresca di Concilio: ne abbiamo bisogno
Più ci si allontana dal Concilio – e
ormai sono passati cinquant’anni – più si corre il rischio di leggere i suoi
documenti – se pure si leggono – come puri scritti dottrinali, avulsi dal loro
contesto, fermandosi ai nudi enunciati dell’insegnamento.
Prima dei documenti, ciò che ha
fatto respirare aria nuova è stato l’evento in se stesso.
La Chiesa ha ricevuto uno
straordinario impulso al proprio rinnovamento dal Concilio come tale, dal
significato che assumeva giorno per giorno quell’assemblea di vescovi
provenienti da tutto il mondo, di laici, di religiosi e religiosi, di membri di
differenti Chiese.
Alcune immagini, a prima vista di
sapore folcloristico, come le tiare esotiche dei patriarchi orientali che
ondeggiavano tra le mitre dei vescovi latini, i Padri conciliari in giro per
Roma sulla Vespa, le diverse provenienti evidente dai volti asiatici e
africani, facevano prendere coscienza di una cattolicità fino ad allora
proclamata ma mai sperimentata in maniera così immediata e diretta. Che i Padri
provenissero da 116 nazioni faceva indubbiamente impressione: 849 dall’Europa
occidentale, 601 dall’America latina, 332 dall’America del Nord, 250
dall’Africa nera, 174 dal blocco comunista, 95 dal mondo arabo, 256 dal mondo
asiatico e 70 dall’Oceania. Quando mai si era vista una tale varietà.
Durante gli intervalli tra una sessione e l’altra spesso, prima di tornare nelle loro sedi, i vescovi di altri continenti, su invito dei loro colleghi, visitavano le Chiese d’Europa e mettevano davanti i fedeli all’evidenza di una Chiesa non più soltanto occidentale o latina. Non soltanto l’evento Concilio faceva prendere coscienza della cattolicità della Chiesa, ma anche della sua dimensione ecumenica, grazie agli osservatori delle cosiddette Chiese sorelle. O meglio la cattolicità di spiegava in tutta la sua realtà più profonda.
Durante gli intervalli tra una sessione e l’altra spesso, prima di tornare nelle loro sedi, i vescovi di altri continenti, su invito dei loro colleghi, visitavano le Chiese d’Europa e mettevano davanti i fedeli all’evidenza di una Chiesa non più soltanto occidentale o latina. Non soltanto l’evento Concilio faceva prendere coscienza della cattolicità della Chiesa, ma anche della sua dimensione ecumenica, grazie agli osservatori delle cosiddette Chiese sorelle. O meglio la cattolicità di spiegava in tutta la sua realtà più profonda.
Ho letto la meraviglia che aveva
suscitato il Concilio nel cardinal Martini:
“La
mia educazione religiosa, catechetica, teologica è tutta preconciliare. Il
sistema era molto organico, privo di fantasia e di creatività…. Un po’ noioso,
pesante, un po’ ripetitivo, senza scioltezza.
Il
Concilio fu un momento straordinario… forse quello più bello della mia vita,
quello in cui si poteva ripensare, rilanciare e riproporre, in cui si sentiva
vibrare una scioltezza, una libertà di parola, una capacità di penetrazione nuova…
In
tanti di noi c’era davvero un desiderio di maggiore autenticità, verità,
povertà, umiltà nella Chiesa: via gli onori, via tutte le pomposità, via tutti
gli orpelli…”
C’è bisogno di tornare a respirare l’aria
fresca del Concilio.
lunedì 3 settembre 2012
Sardegna 6 – L’epopea mineraria del passato e il vuoto di oggi
Non sono andato in Sardegna per fare il turista, e mi sono
trovato il classico “turista per caso”. In un raggio di venti chilometri
attorno a Carbonia mi è stato offerto un’eccezionale percorso storico di 5000
anni, ricchissimo di siti, reperti, monumenti. Mi manca di aver attraversato il
periodo romano, ma per il resto sono passato dal Neolitico alla civiltà nuragica,
dai fenici e punici all’era cristiana, su su fino al Settecento, anzi fino ad
oggi.
Le miniere e l’industria ad esse legate sono state l’ultima
tappa del mio viaggio. Il sito industriale di Portovesme appariva sempre
all’orizzonte con le pale eoliche dell’ENEL e le ciminiere dell’Alcoa. La
cronaca quotidiana di questa industria, che ha ormai iniziato a spegnere i
forni, assieme a quella della miniera carbonifera di Nuraxi Figus hanno
accompagnato la mia permanenza nel Sulcis, facendomi vivere da vicino il dramma
di questa zona, oggi una delle più povere d’Italia.
L’attività mineraria ha segnato la storia dell’isola fin
dalle origini. Quanti ebrei e cristiani sono stati condannati ad metallas, ai lavori forzati
nell’estrazione di piombo, zinco, argento. Anche papa Ponziano insieme al
presbitero Ippolito vennero relegati da queste parti.
Ma è dalla metà dell’Ottocento che l’era industriale delle
miniere è esplosa con tutta la sua forza. Ora rimangono soltanto ruderi,
montagne sventrate, ecosistema rovinato, scheletri in cemento armato, rampe di
ferro arrugginite, impianti fatiscenti, edifici squarciati, ciminiere spente.
Qualche miniera è trasformata in museo. Ho visitato Porto Flavia, il terminale
della miniera di Masua, un autentico capolavoro di ingegneria funzionante dal
1926, fino alla chiusura della miniera nel 1994. Poi il vuoto, la
disoccupazione. Di un secolo d’oro sono rimaste soltanto le ferite.
Terminata l’epoca mineraria,
il Sulcis avrebbe dovuto essere il branco di prova dell’industria metallurgica,
e nacque il polo metallurgico di Portovesme. Oggi, dopo 40 anni, è in agonia,
come già era stato previsto. Le risorse non mancano, a cominciare da quelle turistiche.
Occorrerà fantasia, tenacia e tanta solidarietà.
domenica 2 settembre 2012
Sardegna 5 - Carloforte: esperti di mare e di ospitalità
Un braccio di mare e siamo a Carloforte, sull’isola degli
sparvieri, come la chiamavano i Romani, sull’Isola di san Pietro, come si
chiama adesso a ricordo di una tradizione che vorrebbe che l’apostolo Pietro,
durante i suoi viaggi, sia passato da queste parti (cosa non si farebbe per
avere la propria terra segnata da un apostolo…).
L’unico paese dell’isola prende il nome dal re Carlo
Emanuele III di Savoia, che si adoperò per ripopolare il territorio, e la
chiesa è dedicata a san Carlo Borromeo, ma è in corso un plebiscito per
lasciare i nomi, ma dedicando isola e chiesa a don Carlo, la guida d’eccezione
che mi accompagna e personaggio notissimo. Parroco qui per 15 anni, ha lasciato
l’isola da 19 anni, ma muoversi per il paese è assai problematico, ad ogni
angolo saluti, abbracci, baci… A cominciare da Portovesme: già salendo sulla
nave marinai e ufficiali si mettono sugli attenti davanti al vecchio parroco
che li ha battezzati, sposati, è stato loro professore di religione… Trovo così
posto nella cabina di comando, accanto al timoniere e al capitano e mi godo da lì
la traversata con tutte le spiegazioni sulla rotta e le manovre.
A Carloforte ci attendono naturalmente con la macchina e
inizia il viaggio nell’isola. Non manca il ricordo del naufragio su queste
coste della crociata dei bambini nel 1212, della colonizzazione nel 1738 da
parte dei Genovesi provenienti dall’isolotto di Tabarka davanti a Tunisi,
dell’incursione piratesca del 1798 quando 500 abitanti dell’isola furono
condotti schiavi in Tunisia, del loro ritorno con la Madonna degli schiavi…
Ma sulla storia qui è la natura che la vince, con le sue
splendide spiagge, le scogliere, le cale, gli orridi, le grotte a mare… Anche
la campagna, dove ogni Carlofortino ha una casetta e un pezzo di terra, con le
vigne e gli orti, possiede un fascino tutto mediterraneo. Mi portano a vedere i
bambini che pestano l’uva nel tino, lo spillare del primo mosto, e mi fanno
assaggiare le dolci uve bianche, il tonno rosso alla carlofortina, il vino del
Sulcis…
Ed ecco ancora le saline, i fenicotteri rosa, il faro
solitario…
Poi torna di nuovo la storia recente che ha visto per un
secolo l’approdo sulle bilancelle, le barche caratteristiche del luogo (ne vedo
passare una vecchia di più di 200 anni!), del minerale dalle miniere della
Sardegna e il carico sulle grosse navi; la storia appassionante della tonnara…
Il tutto raccontato in un antico dialetto genovese che per me, povero
straniero, abbisogna di traduzione.
Riparto con gli occhi pieni di colori, di paesaggi… ma
soprattutto con la gioia di avere incontrato delle persone accoglientissime,
esperte di mare, ma soprattutto di ospitalità.
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