Saint-Laurent-du-Verdon, un paesetto perduto tra le colline
della Provenza e le basse Alpi Marittime, immerso tra boschi e terre coltivate,
campi di lavanda, rocce vive, silenzi infiniti.
Un paese di case di pietra, poche, tenute uniti da un paio
di strade strette che percorrono pochi metri prima di perdersi nella campagna.
Una ottantina gli abitanti. Parecchi l’hanno scelto come luogo di riposo,
soprattutto per l’estate.
Il paese è dominato dal castello. Costruito all’inizio del
1600, fu acquistato dal nonno di sant’Eugenio nel 1730, assieme alle terre,
diventando la sede del suo titolo nobiliare. Confiscato dalla Rivoluzione
francese, fu ricomprato dalla nonna di sant’Eugenio, così che questi poté
tornare ad essere signore di Saint-Laurent-du-Verdon. Quando, ventenne, tornò
dall’Italia, la mamma lo mandò proprio a Saint-Laurent, a fissarvi la
residenza, in maniera da trovare un giovane contadino del posto che lo sostituisse
nel servizio militare; costava molto meno che ad Aix. Così il povero Eugenio –
era il 1803 –, che veniva dal bel mondo di Palermo, si trovò solo, in mezzo
alla campagna, tra contadini poveri e ignoranti. Per mesi si annoiò da morire,
come scriveva in italiano al padre rimasto a Palermo: “Non ne posso più, carissimo
papà; son morto di noia e di malinconia... Questo Paese non mi confà”. Che ci
faceva da solo, con i suoi vent’anni, confinato in mezzo ai campi, tra pochi
contadini. Sognava le sale dei palazzi di Aix, con le musiche, i balli, le
belle ragazze, le conversazioni brillanti… I mesi non gli passavano mai.
Vi tornò quindici anni dopo, nell’agosto 1818. Faceva caldo,
come fa caldo nel mezzo dell’estate nel sud della Francia. Ma in quelle aperte
campagne sulle colline dell’Alta Provenza, in mezzo a un mare di girasoli,
quando la sera si leva leggera la brezza, pare d’essere nel posto più bello del
mondo.
Questa volta era diverso. Aveva con sé la mamma, la sorella,
due giovani amici fidati. Era lì per riposare, ma soprattutto per mettere a
punto le Regole della società di missionari a cui da poco aveva dato vita, i
Missionari di Provenza. Nella quiete della grande e fresca stanza nella quale
si rifugiava, scriveva, scriveva… Articolo 1, articolo 2, articolo 3, articolo
4... Gliele bastarono quattro per sentirsi già stretto. Aprì allora una
parantesi e si inventò un “nota bene”, così da poter finalmente scrivere quello
che voleva, senza preoccuparsi del taglio giuridico. Otto anni più tardi,
quando andrà a Roma per fare approvare dal papa la nuova regola, quel “nota
bene” divenne l’introduzione alla Regola, la “Prefazione”. Da allora –
attraverso i molteplici cambiamenti avvenuti nella regola in questi 200 anni –
la “Prefazione” è rimasta lì, intatta, a custodire il cuore della sua
ispirazione.
Oggi siamo andati a visitare quel castello dove è nata la
nostra regola: un autentico pellegrinaggio. Il castello è ormai diviso in 17
appartamenti, compresa la cappella, con altrettanti proprietari, quasi tutti
pensionati inglesi. Il frantoio dell’olio, dietro il castello, è un albergo. I
residenti ci hanno accolto con grande festa e ci hanno fatto visitare l’interno.
Poi la messa nella ciesa del paese… e lì siamo stati presi
da una gioia incontenibile…
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