Lo Zaire era al collasso. Il vecchio dittatore,
al comando dal 1965, dopo venticinque anni di potere assoluto, prese una
decisione inaudita. Il 24 aprile 1990 riunì generali, magistrati, ministri,
governatori di province, parlamentari e giornalisti stranieri nel palazzo delle
conferenze del Partito unico, il Movimento Popolare della Rivoluzione (Mpr), avvolto
nell’uniforme nera da maresciallo, annunciò che, dopo aver ascoltato la voce
del popolo, dichiarava la fine del partito unico e l’apertura alla democrazia: tre
partiti, stampa libera, sindacati liberi e, entro un anno, libere elezioni. “E che
ne sarà del capo in tutto questo?” si chiese Mobutu alla fine del suo discorso.
“Il capo di stato è al di sopra dei partiti politici. Sarà l’arbitro o, ancora
meglio, la suprema istanza giuridica”. I presenti e quanti seguivano per radio
non credevano alle proprie orecchie. Il Paese impazzì di gioia.
Il passaggio sarebbe stato garantito da una “Conferenza
sovrana nazionale”, a cui avrebbero preso parte non soltanto politici e
personalità di rilievo, ma anche membri della società civile e delle Chiese, provenienti
da tutte le province.
La Conferenza ebbe inizio il 7 agosto 1991,
con la partecipazione di 2800 delegati. Alla presidenza Mobutu nominò un suo
uomo di fiducia, convinto che niente sarebbe cambiato. Se ne convinsero anche i
delegati. Il 23 settembre i soldati del centro paracadutisti a Ndjili si ammutinarono,
invasero il centro città, saccheggiarono grandi magazzini, negozi, pompe di
benzina e abitazioni private. Il popolo, stremato dalla fame e dalla povertà,
si unì ai militari. Il saccheggio continuò per giorni
e giorni. 117 i morti e circa 1500 i feriti.
Mobutu non reagiva. I suoi soldati
potevano fare quello che volevano. Molti sospettarono che fosse stato lui a provocare
l’ammutinamento nel tentativo di sabotare la Conferenza.
Dopo il saccheggio fu designato un nuovo
presidente dell’Assemblea. Questa volta fu eletto tramite votazione: Mons. Laurent Monsengwo Pasinya, arcivescovo
di Kisangani e presidente della Conferenza episcopale nazionale. Era il riconoscimento
del ruolo svolto dalla Chiesa in tanti anni di dittatura. I vescovi sotto la
guida del cardinal d Kinshasa, Joseph-Albert
Malula
, si erano mostrarti sempre critici nei
confronti del regime. Le cose si mettevano bene per la democrazia, ma si
mettevano male per Mobutu che, a gennaio, ordinò la chiusura della Conferenza.
Il 16 febbraio scoppiò la protesta
in tutta Kinshasa, organizzata dai cristiani. I vescovi avevano chiesto la
riapertura della Conferenza. I preti ne avevano parlato durante la messa
domenicale. Qualcuno decise di passare all’azione, nonostante che i vescovi non
fossero d’accordo nell’organizzare una marcia. Dopo la messa delle nove, iniziò il corteo. In
più di cento parrocchie di Kinshasa le persone affluirono per le strade. Non c’erano
politici, ma semplici fedeli, ragazzi, studenti, giovani genitori, poveri… Marce
simili ebbero luogo a Matadi, Kikwit, Idiofa, Kananga, Mbuji-Mayi, Kisangani,
Goma e Bukavu. Più di un milione di persone si riversò in strada, si trattava
del più grande raduno di massa nella storia del paese. Si parlò della “Marcia
della speranza”.
Si unirono anche gli
studenti di teologia dei Missionari Oblati. P. Giovanni Santolini, l’unico
bianco tra di loro, volle unirsi al gruppo. «No, no, tu non venire perché noi
siamo neri, nessuno ci distingue dagli altri, ma tu sei bianco, l’unico! I
militari diranno subito: “prendiamo quello là!”». Giovanni partecipa comunque
alla manifestazione. Come si poteva facilmente prevedere appena arrivata la famigerata
divisione speciale presidenziale, subito si sente gridare: “Prendete quel bianco
là!”. Lo rincorrono, lo gettano a terra, lo pestano, lo portano via. Ed ecco
intervenire le mamme del corteo, circondano i militari e gridano: “Ah no! Padre
Giovanni non si tocca”. I militari rimangono per un attimo disorientati. Fin
quando uno gli grida: “Tornate nel tuo Paese, sporco belga!”. E Giovanni: “Veramente
non sono belga, sono italiano”. Poi con il suo sorriso disarmante: “Non
preoccuparti, capita a tutti di sbagliarsi”.
I disordini
continuano, sono ormai all’ordine del giorno. Sempre uno dei giovani Oblati ha la
felice idea di andare a liberare due giovani che i militari hanno trascinato
via. Li raggiunge e li apostrofa: “Se protestano è anche per il vostro bene”. Poi
si rivolge a uno di loro : “Ma tu hai mangiato stamattina?”. Il militare
risponde: “No!”. “Ecco vedi, il tuo presidente non ti dà neanche da mangiare. Stamattina
i giovani che avete preso protestano per cacciare via questo dittatore e tu li
picchi!”. Il militare lascia andare i due giovani. Lo studente oblato contento dice
loro: “Li ho convinti!”. Invece il militare era andato a chiamare altri sei
colleghi: “C’è là un autentico sovversivo, dobbiamo prenderlo”. Tornano insieme
e portano via lui e un altro studente Oblato, che era andato per difendere gli
altri. Li trascinano di forza, malmenandoli, verso la prigione. Quanti hanno
visto corrono da p. Giovanni: “Hanno preso René, hanno preso Joseph e li stanno
portando via”. Giovanni con decisione: “Andiamo a liberarli, se li portano in
carcere per loro è finita. Andiamo, andiamo, andiamo!”. Tutti di corsa dietro
di lui, una piccola folla che continua a ripetere: “Andiamo, andiamo,
andiamo!”. Arrivano su una collinetta da dove vedono i due giovani che vengono
pestati dai militari. Il capo comincia a sparare, col mitra. Giovanni si ferma
un attimo: “O non ha tirato, o non ha le munizioni, spara a salve, oppure io
sono già morto!”. Si rianima subito e riprende a gridare: “Andiamo, andiamo, andiamo.
Non ha munizioni, è una finta, andiamo, andiamo!”. Si gira: nessuno dietro di
lui, tutti dileguati! È rimasto solo, con accanto Macaire. Continuano ad
avanzare con le mani alzate: “Siamo uomini di pace, noi…”. Il militare: “No,
no, se avanzate vi sparo contro”. Giovanni si rivolge a Macaire: “Ci ha già
sparato, Non è vero, andiamo, andiamo!”. I militari si lasciano avvicinare
inizia la discussione: “Questi sono preti, non potete portarli via”. Erano sorpresi
che non avessero paura di loro. Giovanni conosce la mentalità del militare
zairese: “Se costui non ha paura è certamente perché conosce un capo più
importante del mio… è più forte di me; se io gli faccio del male, il suo capo farà
del male a me”. È tale la decisione e la sicurezza di Giovanni che i militari rimangono
di sasso e lasciano che si riprenda i due giovani Oblati e li porti via con sé…
Dopo
due o tre ore vengono altri militari, questa volta per prendere alcuni giovani che
per fuggire alle rappresaglie si sono rifugiati nella casa degli Oblati.
Entrano e ne portano via uno di loro. Giovanni riparte in azione, senza demordere.
Li segue, li ferma e inizia a discutere: “Non avete il diritto di venire a casa
nostra e fare questo”. Tra loro c’è uno dei militari che poco prima aveva visto
liberare i giovani Oblati ed ora è inferocito. Si mette di traverso e comincia
a parlare in una lingua che Giovanni non conosce: “Se osi tornare indietro, ti
sparo”. Giovanni non capisce. Tranquillamente prende per il braccio il giovane
sequestrato: “Adesso rientriamo a casa e basta, finito”. E il militare: “Se osi
passare di qui ti uccidiamo”. I giovani studenti Oblati dall’altra parte del
ponticello che porta al seminario fanno segni dispesati perché non passi. Giovanni
saluta tranquillamente i militari con un bel: “Ciao!”. Quello che lo minacciava
è, ancora una volta, talmente sorpreso che, come tanti altre che avevano
seguito la scena, avrà dovuto pensare: “Questo ha certamente dei poteri magici”.
E dice un semplice: “Passa”. I giovani gridano: “Il buon pastore quando viene il
lupo non scappa!”. Giovanni è diventato un eroe.
Quando Giovanni
Santolini raccontava episodi come questi, con il suo solito humor, senza mai
drammatizzare, terminava: «Un eroe? Ma è capitato per caso e non ho potuto fare
diversamente. Se tu stai lì e dai la vita per questa gente, è normale che gli
dai la vita facendo delle fotocopie quado devi fare le fotocopie, scrivendo a
macchina quando devi scrivere a macchina, programmando l’orario dei professori
quando lo devi fare, andando a una marcia quando devi andare, facendoti pestare…
Non è che uno fa l’eroe per fare l’eroe, è che hai talmente l’abitudine di stare
attento all’altro che quanto ti dicono: “C’è una persona che ha bisogno…”, tu
gli dai una mano; se ti dicono: “Hanno preso quello….”, tu rispondi: “Va bene,
andiamo a liberarlo”. Diventi eroe per abitudine, non perché sei un eroe, ma
perché hai l’abitudine di fare quello che nel momento presente pensi sia giusto.
Non ditemi: “Hai fatto quelle cose? Hai affrontato i militare? Hai rischiato la
pelle? Io non avrei mai avuto il coraggio!”. “Ma neanche io ho il coraggio”».
Questa potrebbe essere
la prima pagina della biografia che mi è stato chiesto di scrivere a 25 anni
dalla morte di p. Giovanni Santolini. Chissà se può andare…