Sarà perché ormai sto invecchiando, ma spesso mi tornano alla mente tante persone incontrate, con le quali si è instaurato un rapporto profondo. Oggi, festa di san Bernardo di Chiaravalle, ecco mi riappare un suo discepolo, fra Tommaso Giunti, di Pistoia, un cistercense pieno di umore e di gioia. Una di quelle persone di cui non c'è traccia su internet, eppure che rimane, anche se è morto nel 2005... Sono andato a rileggermi un breve racconto della sua vita che aveva rivolto a noi giovani religiosi...
Ho avuto sempre una grande simpatia per i Cistercensi.
La mia vocazione era maturata attraverso gli scritti dell’abate Chautard. Sia
io che mia sorella volevamo farci cistercensi. La figura di San Bernardo mi
attirava per la sua esperienza mistica e per la concretezza delle sue
realizzazioni sociali.
Finito il noviziato a Foce d’Amelia, fui assegnato alla
comunità monastica di Santa Croce in Gerusalemme, a Roma, presso l’omonima
basilica. Era una comunità composta di una cinquantina di monaci, per metà
sacerdoti, con una ventina di studenti; noi fratelli laici eravamo otto.
Io fui assegnato ad aiutare in cucina e facevo in
pratica anche da vice economo. Svolgendo il mio turno come cuciniere, dovevo
organizzarmi per preparare i pasti per una cinquantina di persone. Siccome non
ne sapevo nulla, mi comprai un manuale; ne ricordo ancora il titolo, La scienza
in cucina e l’arte di mangiare bene, scritto da un toscano con una bella verve,
ma con frequenti puntate anticlericali. Fu questo lavoro, non sempre facile, a
favorire in qualche modo il mio incontro con il Movimento.
Ma non ero pienamente soddisfatto di come l’ideale di
Bernardo era vissuto nella nostra comunità, dove c’era, tra l’altro, una certa
tensione fra sacerdoti e fratelli conversi. Era un disagio diffuso, tanto che
era maturato un gruppo informale fra noi Fratelli di diverse Congregazioni e
Ordini religiosi. C’era anche il fratello economo della “Civiltà Cattolica”, e
io ne ero un po’ il capoccia. Amavamo incontrarci in qualche sala parrocchiale
per discutere le nostre problematiche. Ci sentivamo una specie di “servitori a
buon prezzo” nella Chiesa, e ad un certo punto decidemmo di mettere per
iscritto alcune proposte e richieste. Ricordo che facemmo giungere quella lettera
addirittura al Papa Pacelli, che ci rispose con parole di incoraggiamento…
Verso la fine del 1949 avevo chiesto e ottenuto dal
Superiore di poter partecipare ad un Corso di Esercizi Spirituali fuori della
nostra Comunità. Avevo confidato il mio disagio anche a Don Italo Taddei, un
sacerdote mio compaesano che a Pistoia lavorava per i ragazzi di strada. Venuto
a Roma, egli parlò con il nostro Abate e lo convinse ad accogliere quella mia
domanda, anzi si offrì di aiutarmi lui stesso. Fu lui a propormi di conoscere
un’esperienza con cui anch’egli era venuto in contatto proprio in quelle
settimane. Così in quel Natale 1949, Don Taddei, con le sue sorelle che erano
pure venute a Roma dalla Toscana, mi condusse nella zona della Garbatella, per
visitare dei “conoscenti”: si trattava del primo Focolare femminile. Egli
stesso era stato impressionato dalla conversazione di una ragazza (Graziella De
Luca) che raccontava come viveva un gruppo di Trento che aveva deciso di
attuare il Vangelo. Ricordo che ci aveva prestato la macchina l’on. Foresi,
pure di Pistoia, che a sua volta aveva da poco conosciuto Graziella. Il
racconto di quella ragazza, pur essendo centrato sulla scelta radicale di Dio,
non puzzava né di sacrestia né di clericalismo e mi colpì profondamente. Il
giorno dopo, dovendo accompagnare un gruppo di pellegrini tedeschi verso la
Basilica di San Paolo, ne approfittai per tornare da Graziella. Volevo saperne
di più, e la stetti ad ascoltare per due ore. Fu come una folgorazione, avevo
trovato la risposta ai miei dubbi e la chiave per risolvere i miei problemi: era la constatazione che Dio mi amava personalmente e
che per corrispondere bastava fare la sua volontà, che si riassumeva nell’amare
il prossimo.
Avendo saputo di altri incontri simili che si svolgevano a Roma,
cercavo il modo di andarvi. Così conobbi Antonio Petrilli, un giovane
architetto che aveva lasciato tutto per vivere l’esperienza del Focolare, e
altri giovani laici che avevano fatto la stessa scelta totalitaria. Ogni mese veniva
proposta una frase della Scrittura come Parola di Vita, ed era bello sperimentare
che queste espressioni, messe in pratica, si dimostravano vere ed erano fonte
di gioia.
Cercando di vivere con questo spirito, compresi presto
che il mio atteggiamento verso il superiore doveva cambiare. Dovevo guardare a
lui non tanto come alla persona cui rivolgermi per avere permessi ecc., ma come
a un padre o a un fratello da amare in modo speciale, perché mi rappresentava
Dio. Superiore della comunità di S. Croce era allora padre Giovanni Rosavini.
Quando gli aprii l’anima, egli mi ascoltò e mi incoraggiò. Anzi, si stabilì
presto un tacito consenso fra noi, per aiutarci a vivere in pienezza secondo il
comandamento evangelico dell’amore reciproco. Una volta, scherzando sul mio entusiasmo, mi disse:
“Tommaso, tu finirai per romperti la testa, con questo ideale!”
Mi chiedevo quale doveva essere il mio atteggiamento per
la riforma dell’Ordine. Chiara Lubich, che ebbi occasione di conoscere poco
dopo, non esitò a dirmi: “Fra Tommaso, la volontà di Dio per Lei non è la
riforma dell’Ordine, ma l’obbedienza! Vedrà quante persone capiranno l’Ideale,
se voi vivete così, preoccupandovi soltanto di amare”.
Nel 1951 fu decisa la riapertura dell’Abbazia di
Chiaravalle, alla periferia di Milano, che era rimasta chiusa e abbandonata per
oltre un secolo. E così fui assegnato anch’io a Chiaravalle.
Nella primavera seguente, nel 1952, dovendo tornare a
Roma per le elezioni amministrative, chiesi al Padre Abate il permesso di poter
passare qualche giorno durante l’estate nell’incontro di vacanza che i
Focolarini tenevano sulle Dolomiti. Così potei partecipare alla mia prima
“Mariapoli” a Tonadico, presso Fiera di Primiero.
A Chiaravalle c’era da ricostruire anche materialmente
gran parte dell’abbazia, ma c’era soprattutto da creare una nuova comunità.
Davanti al Tabernacolo, P. Giovanni, l’abate, ed io abbiamo fatto un patto di
aiutarci a vicenda a realizzare fra noi e nell’abbazia l’unità voluta da Gesù,
scegliendo di rivivere il mistero del suo Abbandono sulla Croce perché egli
potesse essere sempre presente fra noi. In quello stesso anno 1952, mentre ero
a Roma, ebbi l’opportunità di partecipare ad un raduno a Grottaferrata, in cui
vari religiosi e sacerdoti condivisero qualche loro esperienza.
Il mio lavoro principale nell’abazia, oltre a curare
l’economia, era quello di ricevere e accompagnare i pellegrini e visitatori che
sempre più numerosi venivano a Chiaravalle. Trovavo spontaneo spiegare il
carisma di San Bernardo con la luce che mi veniva dall’Ideale dell’unità. E
molti ne rimanevano conquistati. In quegli anni la comunità crebbe da tre a 25
monaci! E sono partiti da Chiaravalle anche vari sacerdoti per il Brasile.
Cercavamo di impostare la nuova comunità con questo spirito, in tutta
semplicità, senza pretendere di fare nulla di nuovo o di speciale.
Adesso non posso più lavorare, sono ammalato e l’abazia
sta attraversando un momento difficile. Ma sono convinto che il segreto della
resurrezione sta in questo nostro saper morire con Gesù, come il chicco di
grano, senza cessare di amare.