Alla vigilia dell’esaltazione
della santa croce abbiamo celebrato la festa di san Giovanni detto Crisostomo, “bocca
d’oro”, tanto grande era la sua eloquenza.
Ho ripreso in mano le
sue Omelie al popolo antiocheno, pronunciate quando era diacono. Tra la
prima e la seconda omelia (le omelie sono 21) una rivolta contro l’imperatore causò
una feroce repressione con uno sterminato numero di morti. Il Crisostomo si ferma a
lungo su questa tragedia…
La traduzione
italiana, apparsa nel 1958 nella Collana patristica della San Paolo, è di p.
Carmelo Conti Guglia, un Oblato di altri tempi… Una volta ne ho parlato qui nel
blog:
https://fabiociardi.blogspot.com/2018/10/il-rosario-di-p-carmelo.html
Mi ha colpito la
dedica del libro: “Ai miei giovani confratelli perché guidati dal Crisostomo
nei tesori dei Santi Padri imparino il segreto della vera eloquenza”.
Dovremmo imparare dalla sua eloquenza, ma anche e soprattutto dalla sua vita, fatta di tenacia, di passione per la verità, di amore per
il suo popolo… Mi ha sempre colpito come ha vissuto gli ultimi anni della sua
vita quando, ormai vescovo di Costantinopoli, viene mandato in esilio. O meglio,
vedendo le violenze che i soldati fanno alla sua gente a causa sua, nella veglia
di Pasqua dell’anno 404, egli stesso lascia la città dopo aver chiamato nel
battistero Olimpia, insieme a Pentadia e Procle, tutte e tre diaconesse: “Venite
qui, figlie mie, ascoltatemi. Per quanto mi riguarda sono arrivato alla fine,
lo so, ho terminato la mia corsa, ed è probabile che non vedrete più il mio
viso. Ma ecco le mie raccomandazioni; che nessuna di voi smetta di essere
devota verso la Chiesa… Che Dio abbia pietà di voi. Ricordatemi nelle vostre
preghiere”.
Olimpia è della
stessa levatura di Crisostomo. Ha edificato un monastero accanto alla casa del
vescovo: vi abitano 240 sorelle! “La pia Olimpia – scrive Palladio – preparava ciò
che era necessario quotidianamente ai bisogni personali di Giovanni e lo
inviava al vescovado…”. Continuò ad esserle vicina e ad aiutarlo “anche dopo la
condanna all’esilio, fino alla fine della sua vita, fornendogli tutto ciò che
era necessario, a lui e ai suoi compagni d’esilio”.
Le lettere sempre più
frequenti che dall’esilio di Cucusa Giovanni indirizza a Olimpia sono una
testimonianza fortissima del legame che sempre li ha uniti, anche in quella
notte che vivono insieme. Immagina lei che dice: “Non riesco a dissipare questa nube spessa e scura di
tristezza, per quanti sforzi io faccia”; ma è anche quello che egli stesso sta vivendo. Poi, nell’ultima tappa dell’esilio
verso il Mar Nero, la malattia, il freddo… Anche Olimpia
lascia Costantinopoli per l’esilio.
Unica luce le parole da lui pronunciate davanti ai suoi fedeli prima dell’esilio: «Molti marosi e
minacciose tempeste ci sovrastano, ma non abbiamo paura di essere sommersi,
perché siamo fondati sulla roccia. (…) Cosa dovremmo temere? La confisca dei
beni? “Non abbiamo portato nulla in questo mondo e nulla possiamo portare via”.
Disprezzo le potenze di questo mondo e i suoi beni mi fanno ridere. Non temo la
povertà, non bramo le ricchezze, non temo la morte, né desidero vivere, se non
per il vostro bene».
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