venerdì 31 agosto 2012

Sardegna 3 - Le catacombe di sant’Antioco


Pochi passi più in là del Tofet fenicio-punico di Sulky e si percorrono qualche altra centinaia di anni, giungendo al II secolo dopo Cristo, al tempo del medico Antioco che secondo una tradizione leggendaria, sarebbe vissuto al tempo dell'Imperatore Adriano in Mauritania, la provincia romana che si estendeva dalla zona occidentale dell’attuale Algeria fino all’odierno Marocco e alla parte settentrionale della Mauritania.
Quando l'Imperatore emise un Editto di persecuzione, Antioco fu tra i primi ad essere arrestato e inviato in Sardegna, in quella che oggi è l’isola di sant’Antioco e che allora era chiamata Plumbaria, grazie alle miniere di piombo. Si stabilì in una antica tomba fenicia trasformandola in un piccolo oratorio sotterraneo. Da qui iniziarono le conversioni e quindi la decisione della condanna capitale. Un laico ed è con lui che inizia la cristianizzazione della Sardegna. Forse già altri prima di lui avevano portato il Vangelo: commercianti, schiavi condannati ai lavori delle miniere… Sant’Antioco è comunque considerato il patrono della Sardegna e, fin dagli inizi, tanti hanno voluto farsi seppellire attorno alla sua tomba, trasformando gli ipogei punici scavati tutti attorno alla cella del martire in una catacomba cristiana.
Sulla sua tomba fu subito costruito un altare e poi, nel V secolo, una basilica, una delle più antiche di tutta la regione, rimaneggiata nei secoli, soprattutto nel 1100.  
La facciata non lascia presagire niente di straordinario, ma una volta entrati ci si ritrova in un luogo d’incanto. Spogliata delle decorazione barocche e dopo aver a nudo la pietra viva, la chiesa splende in tutta la sua austera bellezza. Massiccia e insieme elegante, dà un senso di sicurezza e di pace. Oggi, a quest’ora insolita, è colma di persone raccolte in un insolito raccolto silenzio, proprio come s’addice a un simile ambiente sacro. “Sta per iniziare la celebrazione in onore del nostro parroco: 50 anni di sacerdozio, 75 anni d’età, 35 anni in questa parrocchia”. Così, a voce bassa, la guida gentile che ci accoglie all’ingresso delle scale che portano agli ambienti sotterranei sacri e sant’Antioco e alle catacombe. Gli ipogei punici, nudi negli altri scavi, sono qui trasformati dall’arte funeraria cristiana: archisogli sarcofagi, colonne… Alcune tracce di decorazione su alcune tombe mostrano tra l’altro la figura del Buon Pastore. Dei primi coloni rimane la grandiosità degli ambienti e la regolarità degli scavi e che rendono molto dissimili queste dalle catacombe che siamo abituati a vedere a Roma. “Meravigliati?” continua a ripetere la nostra guida, contenta di vederci sorpresi e stupefatti da questa città sotterranea cristiana.
Su in chiesa troneggia una grande statua barocca di sant’Antioco, paludato con abiti solenni e richiamare il suo status sociale di medico e quello cristiani di martire. Non un monaco, non un apostolo, ma un semplice laico all’origine del cristianesimo sardo.

giovedì 30 agosto 2012

Sardegna 2 - Sulky, la più grande città del Mediterraneo


Una ventina di chilometri e sono sull’istmo artificiale che collega la Sardegna all’isola di S. Antioco. La moderna strada affianca l’antico ponte romano con le eleganti arcate in pietra. Pochi chilometri per un salto di alcune centinaia di anni: dalla civiltà nuragica a quella fenicia-punica.
Al moderno museo archeologico mi accoglie Daniela, appassionata di storia e archeologia e guida appassionante. Curiosamente studia economia e commercio. Da un particolare accende la fantasia dell’ascoltatore, riporta indietro di 2700 anni, fa rivivere l’antico mondo dei Fenici e dei Punici che qui hanno dato vita quella che allora era la più grande città del Mediterraneo: Surky, la “città dei due porti”, diventata la Sulci dei romani e poi Sulcis dei sardi che ha dato il nome a tutta la regione. Cartagine non era ancora stata fondata e neppure Roma, allora un villaggio sannita di 800 abitanti. Sulky ne aveva 10.000.
Inizio la visita dal Tofet, la collina rocciosa sulla quale, negli anfratti, venivano sepolti i bambini non nati o che morivano poco dopo il parto: una necropoli tutta per loro, in un tempo in cui la mortalità infantile raggiungeva il 70, 80 per cento delle nascite. Venivano bruciati in punto preciso tra le rocce e i resti posti in piccole pignatte di terra cotta, adagiate una accanto all’altra. Ogni tanto una stele votiva di pietra ringraziava la divinità per aver confesso un altro figlio. Davanti alla collina si apre il braccio di mare che divide l’isola di S. Antioco dalla Sardegna. Il declivio scende verso est, nella sicura speranza che anche quei bambini avrebbero potuto rinascere a vita nuove come il sorgere del sole.
In questo meriggio assolato i colori acquistano una nuova intensità: i muschi rossastri delle pietre si accendono di ruggine, il blu del mare diventa iridescente, il cielo si incupisce; l’orizzonte si distende verso la pace della sera.
Più a nord, sotto l’odierna cittadina di S. Antioco, giace la necropoli degli adulti che si estende per oltre un chilometro. Alcuni degli ipogei punici sono stati abitati dalla popolazione più povera della regione fino a 40 anni fa. Scavati nel morbido tufo, appaiono come vaste camere con nicchie nelle quali si collocavano gli oggetti che sarebbero dovuto servire ai morti per la loro vita d’oltretomba. Ne visito alcuni trasformati in dimore dei vivi, imbiancati di calce, arredati in maniera essenziale; un caratteristico quartiere che oggi acquista caratteri folcloristici, anche se non può cancellare l’immagine di secoli di miseria.
Il museo Ferruccio Barreca, che raccoglie le testimonianze dell’antichità di questa regione, dal tempo dei nuraghi fino all’epoca romana, fa rivivere quelle civiltà e il loro culto per i morti: ceramiche, monili, amuleti… Oggetti comuni e gioielli d’arte indicano gli stretti legami tra regno dei vivi e dei morti. Inaugurato pochi anni, fa il museo si percorre con crescente interesse e stupore; tutto vi è disposte con gusto, sobrietà ed eleganza. Al centro i due leoni punici, un tempo a guardia delle porte della città; datati intorno al VI sec. a.C., sono stati scoperti nel 1983.
Come per tante altre civiltà la testimonianza più eloquente è quella legata al mondo dei morti; la città loro città, la necropoli, è più viva di quella dei vivi. 

mercoledì 29 agosto 2012

Sardegna 1 - Il silenzio e la solitudine del nuraghe


31 km per attraversare 5.000 anni di storia. È il cammino che sto percorrendo in questi giorni e che porta da Gonnesa a Sant’Antioco. Gonnesa, un paesotto arruffato e sgraziato nella punta meridionale della Sardegna, con una storia che risale al 1000. Spopolato nel 1400 a causa di carestie e pestilenze o delle frequenti incursioni piratesche, riprese vita alla fine del 1700 con la tipica attività pastorizia, fin quando nella seconda metà del 1800 si sviluppò l'attività mineraria. La crisi dell'industria mineraria del secondo dopoguerra ne ha ridisegnato lo scenario economico-sociale ed ora punta sul turismo delle sue spiagge.
Ma il mio itinerario parte da fuori paese, da una collina appena segnalata dalle indicazioni stradali: il complesso nuragico di Seruci, uno dei più grandi della Sardegna.
Nel pomeriggio assolato, le pecore immobili all’ombra di piante di sughero che il vento ha irrimediabilmente piegato sono l’unica presenza vivente in una campagna arida e silenziosa. Una strada solitaria, che si dirama dalla provinciale, altrettanto solitaria, si perde sulla collina lasciando davanti l’imponete sito archeologico: il grande nuraghe. Le misteriose costruzioni megalitiche conosciute dai libri delle elementare, che ho sempre sognato di vedere, si materializzano in questo imponente mastio contornato da almeno cinque torri unite da un bastione. Tutto attorno il villaggio, composto da oltre cento capanne circolari divise da strette stradine che portano tutte verso una piazza centrale, al centro del villaggio, dove si trova quella che è stata denominata la Sala del Consiglio.
Entro nella massiccia costruzione, il nuraghe, uno delle settemila sparsi su tutta l'isola, 
sulla cui funzione archeologi e storici non sono concordi: edificio a carattere civile-militare, fortezza, sede delle decisioni comunitarie, tempio, luogo di mercato, residenza del capo del villaggio, o varie combinazioni fra queste possibilità? Mi aggiro tra cunicoli, stanze, passando da porte dalle passe architravi, il tutto in grandi pietre tirate su a secco, con mura spessi metri e metri, soggiogato dal senso di grandezza e dai peso dei millenni. Risale al 1700, al 1500 avanti Cristo?
Ho voluto conoscere le impressioni di alcuni scrittori: trascrivo quelle nelle quali più mi ritrovo. Comincio da Virgilio Lilli che nel suo Viaggio in Sardegna  del 1932 scrive: ”Il Nuraghe è forse la costruzione più solitaria che io abbia incontrato. Più solitaria delle piramidi d’Egitto, più solitaria delle Sfingi”. Carlo Levi in Tutto il miele è finito: ”Dentro al nuraghe c’è ombra e silenzio, e, naturalmente, senza intervento dell’immaginazione o sforzo della ragione o della fantasia, il senso fisico di essere in un altrove, in una regione ignota, prima dell’infanzia, piena di animali e di selvatica grandezza”.
Nel Diario sardo Alfonso Gatto annotò: ”Su questi altopiani tagliati netti nel cielo come piattaforme, i protosardi, i piccoli e ostinati guerrieri dei nuraghi, costruirono le proprie fortezze e i propri villaggi circolari, così incisi e forti da dare ancora oggi il brivido della vita che li animò. Siamo riportati alle origini, alla nascita degli umani accorgimenti, alla rivelazione di gesti che si ripetono, si provano, si associano per dar forma e luogo al lavoro e alla vita”.
Il filosofo tedesco Ernst Jünger, in Terra sarda: ”Il  nuraghe è una fra le  cellule germinali dell’architettura d’Occidente. La forma del nuraghe richiama un mondo al di fuori della storia, immerso nel sogno. La sua rotondità, che ricorda un’anfora o una coppa, ha tratti femminili”.  
Dominique Fernandez in Madre mediterranea: ”Si vedono spesso, isolate nella campagna sarda, quelle torri corpulente chiamate nuraghi, fatte di blocchi di pietra sovrapposti a secco. L’interno è percorso da un dedalo di corridoi e di scale. Oggi offrono riparo a greggi, e forse alle primitive paure dei pastori, che ritrovano in questo rifugio oscuro e circolare l’immagine lontana della torre primordiale, dell’andito originale della vita”.
Il poeta  Tonino M. Rubattu: “Se vedi il nuraghe / nelle alture / che da sempre / lotta contro il vento, / fèrmati, forestiero, un momento / perché sei capitato nella mia Terra”.
Infine Nino Savarese in Cose d’Italia dei nuraghi scrive: ”Sembrano sfuggiti alla custodia della storia. L’intimità di queste strane case non è stata violata, con la mole delle loro pietre esse voltano le spalle agli uomini e si allontanano nella solitudine”.

martedì 28 agosto 2012

Ho scritto t’amo sulla sabbia


Quando la giornata cominciò a raffrescare, Apa Pafnunzio uscì dalla cella e si incammino nella  pianura. Gli anziani consigliavano di non allontanarsi mai dalla cella, perché era lì che il Signore parlava. Ma ormai egli aveva imparato che il Signore parla in ogni dove, bastava soltanto avere orecchie attente per ascoltarlo e cuore puro per accoglierlo. Giunto sul terreno sabbioso notò che erano spuntati dei fiori bianchi, nonostante l’aridità del suolo.
D’improvviso quella sabbia gli riportò alla mente un canto che aveva ascoltato tanti anni addietro nelle vie della città. Apa Giovanni gli aveva insegnato a vigilare attentamente sui logismoi – i pensieri, i sentimenti del cuore, le interferenze mentali – e sulla loro origine, a disciplinarli con cura. Ma nonostante tanti anni di allenamento a volte emergevano improvvisi, come quelle prime parole della canzone: “Ho scritto t’amo sulla sabbia”.
Che amore labile dov’essere stato, si disse, quello che aveva sentito cantare laggiù in città, se scritto sulla sabbia. Sarebbe bastata un’onda del mare a cancellarlo o lì, nel deserto, un soffio di vento.
Si soffermò a lungo su quel pensiero, fin quando lo invase il turbamento. Che fosse così anche il suo amore per Dio, nonostante il passare degli anni e la vita nascosta nel deserto? Aveva, il suo amore, la consistenza e la continuità di una dichiarazione incisa sulla pietra, era indelebile, oppure soltanto un vago sentimento evanescente, illusorio, come quello scritto sulla sabbia? Amava veramente il suo Signore? Rimase incerto. Poi sentì scendergli dentro, come un liquido scuro, l’amarezza di chi d’improvviso si riconosce povero d’amore, o almeno con un amore povero, effimero come un segno leggero sulla sabbia.
Fu allora che l’esercizio di ruminare la parola di Dio, che ormai da anni accompagnava apa Pafnunzio al punto di essergli abituale, quasi meccanico, portò il suo frutto. La domenica precedente, giorno del Signore – ma ormai sapeva che ogni giorno è giorno del Signore – nella sinassi comunitaria aveva ascoltato le parole dell’apostolo Pietro rivolte a Gesù: “Da chi andremo, Signore? Tu solo hai parole di vita eterna”. Non aveva smesso di ripeterle, lasciandole penetrare nel fondo del cuore. Così riemersero improvvise alla mente, come tenue luce, e presero il sopravvento. Era vano interrogarsi sulla consistenza del suo amore, fosse scritto sulla sabbia o sulla roccia. In quel momento importava soltanto continuare a ripetere: “Da chi andremo, Signore? Tu solo hai parole di vita eterna”.
Guardò ancora una volta i fiori bianchi spuntati sulla sabbia del deserto, e dal deserto del suo cuore sentì spuntare di nuovo, come un fiore bianco, l’amore per il suo Signore. (I detti dei Padri del deserto di Scite, 43)

lunedì 27 agosto 2012

Quell’abbraccio fra san Domenico e san Francesco


Nel convento di santa Maria sopra Minerva, dove mi recavo per incontrare padre Valentino, c’è l’immancabile affresco dell’abbraccio tra san Francesco e san Domenico. In questi ultimi giorni mi ha parlato più volte di quell’incontro tra i due santi. Ma non posso dimenticare l’attualizzazione di quell’abbraccio, avvenuto nella cappella del Centro Mariapoli a Rocca di Papa, quando padre Novo, francescano, si è abbracciato con p. Valentino, domenicano. Insieme celebravano il 60° della loro ordinazione sacerdotale.
“Nel 1949 Padre Novo – ci disse Valentino all’omelia – veniva ordinato sacerdote a Betlemme, io a Roma; ma nel disegno di Dio, nel disegno della Madonna, le nostre anime sarebbero state affratellate. Lui francescano, io domenicano, avremmo ripetuto l’abbraccio di S. Francesco e S. Domenico, che si perpetua nella Mariapoli celeste”.
Ieri tra i due c’è stato di nuovo quell’abbraccio, nella “nella Mariapoli celeste”, e da quel momento si perpetuerà, segno e profezia dell’abbraccio tra tutti i carismi.
 “Qui – continuò p. Valentino durante l’omelia in celebrazione eucaristica – c’è anche la tomba di Foco e di Chiara a ricordarci la stessa realtà. Foco era un terziario domenicano, così come Chiara era una terziaria di san Francesco: altrimenti sarebbe stata Silvia. Di nuovo, il Signore – che è voluto tornare qui in terra, in mezzo a noi, nascendo da “Maria mistica” – ha voluto anche che questa “Maria mistica” nascesse dall’unità di due santi che rivivevano nei loro figli: Francesco e Domenico”.

Giunge intanto un commento al blog di ieri: “Leggendo quanto hai scritto su questo 'fratello' domenicano, mi è passato nella mente questo pensiero: Io non lo conoscevo, non sapevo neanche della sua esistenza in questo mondo. Eppure la 'sua fedeltà' al fondatore e all'Ideale hanno contribuito, per la comunione dei Santi, anche a fortificare la mia vacillante fede.”

Il cielo continua a popolarsi. Ieri è partita anche Vale (Valeria Ronchetti), una delle prime compagne di Chiara Lubich. All’abbraccio tra Francesco e Domenico si aggiunge anche lei, che ha condiviso l’avventura dell’unità con Padre Novo e Padre Valentino. Ero stato a trovarla pochi giorni fa. Era stremata dalla sua lunga malattia, ma sempre accesa dal fuoco dell’unità. “Sono venuto per riaccendere la mia fiaccola al tuo fuoco”, le ho detto. E lei: “Il fuoco di Padre Novo…”

domenica 26 agosto 2012

Valentino vestito di nuovo


“Oh! Valentino vestito di nuovo, come le brocche dei biancospini”. Quante volte ho salutato padre Valentino con queste parole della poesia del Pascoli! E lui stava sempre al gioco. Tutti e due contenti della nostra bella parlata toscana. Se ne è andato oggi, in silenzio, come nel suo stile.
Il giorno che padre Novo è morto sono andato a trovarlo in ospedale e mi ha detto: “Appena ho saputo che padre Novo è morto, mi è andata via la paura della morte che sempre ho avuto: non ho più paura di morire” (era lui l’Apa Pafnunzio di cui avevo scritto nel blog del 31 luglio). Adesso è andato a trovare padre Novo in paradiso, senza più paura.
Dal giorno della morte di padre Novo sono andato quasi ogni giorno a celebrare la messa nella sua stanza d’ospedale. Lui, che era molto ligio al diritto canonico e alle norme liturgiche, in altre circostanze non avrebbe forse approvato una messa in stanza, ma ormai… “E così anche oggi abbiamo celebrato la messa clandestina”, diceva ridendo, “come nei campi di concentramento…”. Dal suo letto concelebrava con la stola posata sul lenzuolo.
Dopo la messa ogni volta mi raccontava qualcosa di sé e del suo passato, del papà del quale in questi giorni ricorreva la morte, della sua vocazione, dell’incontro con Graziella De Luca… Aveva 10 anni quando, dopo essersi intrattenuto a lungo in preghiera dietro l’altare della sua chiesa, capì che la sua vita avrebbe avuto senso soltanto se vissuta interamente nel soprannaturale. Fu l’inizio della sua vocazione: sarebbe stato sacerdote, ma d’un sacerdozio universale, come gli apostoli, inviati nel mondo intero: domenicano! “Eppure - mi racconta un altro giorno – una volta arrivato a Roma, non me ne sono mai più lontano; dov’era quel monto intero che avevo intravisto? Il mondo intero è arrivato da me; attraverso l’insegnamento ho formato migliaia di giovani provenienti del mondo intero, che sono poi tornati nel mondo intero a portare il Vangelo…”
Mi rimprovera di non conoscere bene san Domenico e mi invitava a studiarlo, perché è un gigante nella Chiesa. Ma ogni giorno, alla fine della messa, esprime la gioia dei due nostri carismi (o tre, quando veniva anche una suora ugualmente ricoverata) uniti nella celebrazione eucaristica.
Nella festa di san Domenico, il 26 agosto, era particolarmente contento di poter celebrare la messa. Anzi, il giorno prima, essendo andato  nel pomeriggio, aveva voluto che anticipassi la festa seguendo il formulario del santo. Quel giorno mi domanda: “Quando è morto il tuo fondatore?” E fa subito i calcoli di quanti anni lo separano da Domenico: “Così tanti secoli ed eccoli qui insieme, uniti”. Ma questo appunto è un ritornello quotidiano: l’unità dei carismi, l’unità di tutte le vocazione nella Chiesa, semplicemente l’unità.
È poi il momento del ricordo della sua parola di vita – “Ti basta la mia grazia” –, così cruda, eppure addolcita dalla frase che aveva scritto sull’immaginetta della sua prima messa (come gli aveva fatto notare don Foresi); del Buon ladrone che non ha rubato il paradiso, come dice sant’Agostino, ma che se l’è guadagnato, come dice Graziella, con la sua fede e il suo abbandono nelle mani di Gesù… E intanto mi fa telefonare a Graziella per salutarla insieme…
Il 15 agosto, festa dell’Assunta, ridendo ricorda di quante transenne aveva scavalcato in Piazza san Pietro – "Allora ero giovane" – per essere in prima fila per la proclamazione del dogma.
L’ultima messa insieme è il 22 agosto, festa di Maria Regina. Ricordiamo le origini della nostra comunione tra carismi avvenuta proprio quel giorno del 1954, e rinnoviamo la nostra consacrazione a Maria perché usi le nostre vite per i suoi disegni…

sabato 25 agosto 2012

Cieli nuovi e terra nuova… e mari nuovi



A qualcuno il blog di ieri è sembrato un po’ blasfemo: mettere quasi sullo stesso piano il Cielo-Paradiso e il cielo su Roma!
Eppure l’Apocalisse ci assicura che alla fine dei tempi ci saranno cieli nuove e terre nuove. Adesso che sono passato da Roma al Sulcis Iglesiente, con un mare limpidissimo, penso che ci saranno anche mari nuovi. Se i nostri corpi risorgeranno, risorgerà anche il creato, dal quale i nostri corpi sono stati plasmati. Il Padre tutto ha creato nel Figlio e alla fine del tempi tutto ritornerà al Padre attraverso il Figlio, Paolo diceva che è inutile domandarsi come sarà il nostro corpo nella risurrezione; sarà come il corpo di Gesù trasfigurato. Quindi è altrettanto inutile domandarsi come sarà la creazione “risorta”. Sappiamo comunque che niente andrà perduto di ciò che Dio ha fatto, neppure quello che l’umanità ha costruito, “estensione” del creato (anche il brutto sarà rimbellito!). Basta guardarci attorno con gli occhi del Risorto e, nella bellezza del creato, intravedere i cieli nuovi, la terra nuova… e i mari nuovi.

venerdì 24 agosto 2012

Nel cielo di Roma


Santa Maria in aracoeli, chiesa del 1200 dai caldissimi colori ocra, nel 1900 è stata sovrastata dall’imponente bianchissimo freddo Vittoriale. La prima testimonia la secolare fede cristiana di tutto un popolo, il secondo ostenta una fede laica, massonica, di una ristretta élite. Contrasto più stridente non si poteva immaginare. Dato che c’ero perché non visitare l’una e l’altro? Nella prima il Cavallini e l’immagine veneratissima del Bambino Gesù, nell’altro i ritratti di Vittorio Emanuele II e Garibaldi…
Ma il Vittoriale riserva una sorpresa straordinaria. L’ascensore ti porta su su, fino alla terrazza delle quadriglie, nel cielo di Roma! Da lassù la più bella visione sulla città: da un lato i fori e il Colosseo, incorniciati dalle colline dei Castelli romani; dall’altro piazza Venezia, il Pincio, il Quirinale, la cupola del Panteon o del Vaticano. Spettacolo da incanto. Le ore passano nell’ammirazione senza che te ne accorgi. Il Vittoriale come grande balaustra sulla città di Roma. La mistica Santa Maria in aracoeli ti porta in Cielo. Il laico Vittoriale ti porta nel cielo di Roma. Ma c’è poi davvero tanto contrasto?

giovedì 23 agosto 2012

Ancora alla ricerca di Pietro Cavallini


L’ultimo affresco di Pietro Cavallini e stato scoperto pochi anni fa all’Ara Coeli, sul Campidoglio. Nel mio pellegrinaggio alla ricerca del pittore romano non ho potuto fare a meno di andare a contemplare quella straordinaria icona in quella straordinaria chiesa. Si vede subito che è la madre del Cristo giudice nell’affresco di santa Cecilia in Trastevere: stesso volto e stesso sguardo serio.
Ma si può lasciare che queste pitture e queste chiese siano soltanto lasciate alla curiosità o allo studio dei turisti? Non sono nate per essere pregate? Ho rimesso la Madonna del Cavallini al suo posto e ho ridato alla chiesa la dignità di santuario… recitando il rosario.

Maria Regina: l’icona che parla


Maria Regina: a fine mattinata una visita veloce nella basilica di san Pietro per salutare la Madonna del Soccorso, un’immagine di una bellezza unica, che la tradizione fa risalire ai tempi di Pasquale II (1099-1118). Incastonata tra intarsi di marmi preziosi, è collocata nella cappella Gregoriana, nel transetto destro, un luogo isolato e silenzioso perché riservato alla preghiera e interdetto ai turisti. Un frate lì presente ha voluto ricordarmi della nostra vocazione ad essere “profeti”, persone che sanno ascoltare Dio e che sanno parlare di lui. In ginocchio davanti all’immagine, ho pregato il rosario. Parlavo a Maria e lei mi parlava. Veramente le icone parlano, basta saperle guardare.

martedì 21 agosto 2012

Leggere il carisma in nuovi contesti culturali


Sta volgendo al termine il corso di tre settimane per i superiori dei nostri studentati, nei quali 600 studenti si stanno preparando alla loro futura vita missionaria tra gli Oblati. La grande varietà dei formatori esprime la grande varietà della Congregazione presente in tutti i continenti: Pakistan, Bangladesh, Sri Lanka, India, Filippine, Indonesia, Vietnam, Germania, Francia, Spagna, Italia, Polonia, Lesotho, Sud Africa, Congo, Cameroun, Madagascar, Stati Uniti, Haiti, Messico, Brasile, Bolivia, Australia, Canada.
Se alle origini sant’Eugenio fu capace di interpretare ed esprimere i disagi, le attese, le speranze dei contemporanei, con strumenti adeguati e rispondenti, anche oggi i loro seguaci sono chiamati a percorrere il medesimo cammino. Questo implica vicinanza alla gente, immersione nei loro problemi e sensibilità, pregiudiziale positiva e simpatia per le tendenze culturali contemporanee. In questo modo il soffio dello Spirito avrà ulteriori orizzonti su cui spirare e gli Oblati riceveranno ulteriori impulsi, senza ripiegamenti su se stessi, ripetitività sterile, autoreferenzialità.
Spesso il carisma rimane legato al primitivo mondo culturale, senza il coraggio di lasciarsi sfidare e certamente arricchire dalle altre culture. L’audacia del cristianesimo primitivo, che ha saputo lasciare il mondo ebraico ed aramaico per lasciarsi plasmare dalla cultura greca, siriaca, latina, dovrebbe essere il coraggio dei nostri Istituti oggi.
Siamo sinceramente aperti ad una interpretazione e una attualizzazione del carisma secondo culture indiane, filippine, congolesi, brasiliane…? Non basta dichiarare la sua internazionalità. Si tratta di andare ben al di là della semplice presenza di persone di altri universi culturali nell’Istituto o di semplice adattamenti di tipo folcloristico. Occorre piuttosto aiutare chi appartiene a determinati gruppi culturali ad utilizzare i propri linguaggi per ridire il carisma nel proprio contesto culturale.
È un processo difficile non soltanto per un freno che spesso agisce inconsciamente in quanti hanno sempre espresso il carisma nella cultura originaria, ma anche per una frequente inerzia intellettuale da parte di chi vive in altre culture, tentato di ripetere pigramente il già detto. Non vi è tuttavia altra possibilità per essere propositivi e per incidere nelle diverse culture. Si scopriranno così ulteriori modalità di leggere e vivere il carisma, facendone emergere ulteriori ricchezze, e consentendo ulteriore fecondità. È la sola garanzia di sopravvivenza e di incisività nell’ambito sociale ed ecclesiale.

lunedì 20 agosto 2012

Perché le nostre chiese sono vuote?


Ieri ho incontrato per caso un vecchio professore di storia che conosco da molto tempo. Mi ha chiesto di fermarmi un momento con lui perché voleva riflettere a voce alta. "La Chiesa, agli inizi, non era molto organizzata – comincia a dirmi – c’erano pochi presbiteri, non c’era il Vaticano, non riceveva l’8 per mille, anzi era perseguitata, i missionari erano soldati e mercanti… Eppure era piena di entusiasmo e attirava sempre nuove persone. Perché oggi invece…"

Nel frattempo mi arriva una e-mail: “Siamo stati ad Orsigna, luogo tanto amato da Tiziano Terzani, dove ha scelto di terminare la sua vita terrena. Un cartello indica un sentiero che porta "all'albero con gli occhi", che Terzani aveva creato per spiegare al nipotini che anche la natura ha una sua vita. Attorno all'albero qualcuno ha messo oggetti vari: un rosario, pezzi di stoffa che ricordano le preghiere buddiste, bigliettini, ecc. Nel prato dove si erge l'albero sono disseminati mucchietti di pietre a piramide. Il tutto crea un ambiente che invita alla meditazione; infatti vediamo una giovane famiglia seduta in silenzioso raccoglimento. Penso basti poco per creare un ambiente magico o sacro; la gente cerca luogo di pace come questo, ne ha bisogno… Perché allora le nostre chiese sono vuote?"

Uno dei miei amici delle Filippine è stato in Belgio. Ha visto tante chiese trasformate in locali pubblici o semplicemente chiuse al culto. “Alcune sono a ancora aperte - mi ha detto -, ma sono frequentate soltanto da Filippini; i Belgi non vanno più in chiesa…”

È forse tempo di un cristianesimo nuovo, più semplice, essenziale, che nasce e cresce attorno a rapporti personali, come nelle chiese domestiche all’inizio del cristianesimo.

A Roma, sulle orme di sant’Eugenio


In una bella domenica estiva, sotto un sole splendente e caldissimo, eccoci per le strade di Roma ripercorrendo gli itinerari di sant’Eugenio de Mazenod. Ci vorrebbero delle settimane per visitare tutto quello che lui amava visitare nei suoi sei viaggi a Roma, il primo dei quali ebbe una durata di mesi.
Con i formatori, provenienti dal mondo intero, la maggior parte a Roma per la prima volta, visitiamo diversi luoghi. Particolarmente raccolta la visita alle stanze di sant’Ignazio. La prima volta che sant’Eugenio vi entrò rimase a lungo a guardare ogni particolare e a meditare sulla vita di sant’Ignazio concludendo, nel diario: “Tutti questi preziosi ricordi mi hanno fatto veramente piacere, e questi luoghi mi piacciono troppo perché non sia molto contento di visitarli”.
A San Paolo fuori le mura
Anche noi ci attardiamo nell’atrio affrescato dal Pozzi e poi a vedere le sobrie e austere stanze: lo studio, la camera da letto… In quest’ultima stanza abbiamo pregato come aveva fatto sant’Eugenio.
Nella sua ultima visita, il 27 novembre 1854, annotava nel diario: “Ho cominciato la mia giornata andando a celebrare la messa nella camera dove sant’Ignazio e san Francesco Borgia sono morti dopo verla abitata durante il loro santo generalato è in questa camera che san Luigi Gonzaga e san Stanislao Kostka furono ricevuto nella Compagnia di Gesù. È là che san Filippo Neri, e senza dubbio anche gli altri santi che vivevano in quell’epoca feconda di santi, vennero a visitare i due generali e intrattenersi con loro. Trasformata in cappella san Carlo Borromeo e san Francesco di Sales vi vennero a celebrare la santa Messa su questo stesso altare dove io stesso ho avuto la grazie di celebrare il santo sacrificio. Sempre con un grande sentimento di devozione prego in questo santo luogo. Non posso dimenticare la grazia che ho ricevuto nel tempo del mio primo viaggio a Roma, quando avevo così grande bisogno della protezione di tutti i santi che andavo a invocare in ciascuno dei loro santuari. He messa fu quella! Non ne conto che 4 o 5 nella mia vita in cui ho provato questo genere di grazia; non la si domanda ma quando la si riceva, ci si confonde e si ringrazia con un grande sentimenti di riconoscenza”.

sabato 18 agosto 2012

A Roma, alla ricerca di Pietro Cavallini


Due passi a Trastevere per incontrare Pietro Cavallini che con le sue forme plastiche e i densi colori ti trascina in un mondo mistico, sempre reale e profondamente umano. Prima a Santa Cecilia per ammirare il giudizio universale, un vasto affresco dipinto alla fine del 1200 e riscoperto soltanto nel 1900 dietro il coro delle monache. Non è facile accedervi, anche se basta chiedere alle benedettine, che custodiscono la basilica dal 1100.
Il Cristo glorioso, circondato da angeli e cherubini fieri di attorniare il loro Signore e dagli apostoli, uomo bel ritagliati nei loro profili possenti… La scuola romana di pittura raggiunge il suo culmine e compete con quella toscana già preannunciando Giotto. In una parete nascosta dagli scanni delle monache una annunciazione che ritrae una Madonna giovanissima, quasi una bambina, che gode di sapersi ormai la Madre di Dio.
Poi a Santa Maria, sempre in Trastevere, per contemplare ancora Cavallini con i mosaici della storia di Maria, subito sotto l’abside sfolgorante della gloria del Cristo e di Maria. Quadri di paesaggi lontani che mettono in risalto, vivissime, le scene e i personaggi che ormai si allontanano del classico mondo bizantino.
Quanta bellezza da contemplare, quanti soggetti da meditare, quante icone da pregare. Che gli artisti continuino ad elevare l’anima umana e che l’anima umana si semplifichi e si purifichi per poter godere del bello.

venerdì 17 agosto 2012

Cliccare Dio e parlare con lui


L’ateismo militante e combattivo – quello, per intenderci, di un Odifreddi o dell’Unione degli Atei e degli Agonistici Razionalisti – guadagna terreno. Molto più diffusa l’indifferenza verso ogni tematica religiosa; ne è rivelatrice l’ignoranza generale in questo materia, evidente, ad esempio, dagli elementari quiz televisivi o dai dibattiti dove giornalisti ed esperti si muovono a disagio su questo terreno sempre meno noto. Rimonta anche l’astio verso l’istituzione Chiesa, alimentata da scandali morali e finanziari, privilegi fiscali…, allontanando dalla pratica religiosa.
Dio, negato dimenticato o avversato, rimane comunque all’orizzonte. Come per gli antichi, anche oggi il sacro conserva il volto del “tremendum et fascinans”, che mette timore e insieme attira, tra nostalgia e aspirazione, smarrimento ed ebbrezza. Accanto all’homo sapiens e all’homo faber permane l’homo religiosus. Il desiderio di Dio è inscritto in ogni cuore, nell’età della pietra come nell’era digitale, perché l’uomo e la donna sono stati creati da Dio e per Dio, lo sappiano o lo ignorino.
Iniziando le sue catechesi sulla preghiera, che sta portando avanti da più di un anno, Benedetto XVI affermava che “l’uomo porta in sé una sete di infinito, una nostalgia di eternità, una ricerca di bellezza, un desiderio di amore, un bisogno di luce e di verità, che lo spingono verso l’Assoluto; l’uomo porta in sé il desiderio di Dio”. Ne sono prova i milioni di clic con i quali ogni giorno si chiede ai motori di ricerca del web chi è Dio: è tra i personaggi più cliccati in assoluto. Vale la pena dedicargli un numero di Unità e Carismi!
In verità ogni numero della nostra rivista è dedicato a lui, orizzonte nel quale viviamo e ci muoviamo, vita della nostra vita. Questa volta ci siamo proposti di parlare dell’unione con lui, realtà che può e deve abbracciare e informare ogni attimo della vita, anche quando non c’è il tempo di pensare a lui; è frutto dell’amare e del soffrire, dell’adempimento della sua volontà; la si può avvertire vivissima in certi momenti di luce e in quelli di prova sentirne la lontananza… In modo particolare vogliamo qui parlare di una manifestazione privilegiata di questo rapporto, la preghiera, “espressione – come scriveva Tommaso d’Aquino – del desiderio che l’uomo ha di Dio”.
Questa attrazione verso Dio – riprendo l’inizio delle catechesi di Benedetto XVI –, che Dio stesso ha posto nell’uomo, è l’anima della preghiera, che si riveste poi di tante forme e modalità secondo la storia, il tempo, il momento, la grazia e persino il peccato di ciascun orante”. Essa “non è legata ad un particolare contesto, ma si trova inscritta nel cuore di ogni persona e di ogni civiltà. Essa è un atteggiamento interiore, prima che una serie di pratiche e formule, un modo di essere di fronte a Dio prima che il compiere atti di culto o il pronunciare parole… è il luogo per eccellenza della gratuità, della tensione verso l’Invisibile, l’Inatteso e l’Ineffabile”. Si può dunque non soltanto interrogarci su Dio, pensare a lui, ma addirittura ascoltarlo e parlare con lui in un dialogo chiamato a diventare, secondo la celebre definizione della preghiera lasciataci da Teresa d’Avila, rapporto di amicizia con Colui dal quale sappiamo di essere amati”.
Per convincere sull’importanza della preghiera gli autori spirituali di ogni secolo, dopo aver esaurito ogni altro argomento, sono solidi concludere con l’affermazione che Gesù stesso, il Figlio di Dio, ha pregato! Il suo rapporto con il Padre era costante, fatto di adempimento della sua volontà (Gv 14, 31), di conoscenza mutua (Mt 11, 27; Gv 10, 15), al punto d’essere una cosa sola (Gv 10, 30), l’uno nell’altro (Gv 10, 38; 14, 10-11; 17, 21).
Questo rapporto si esprimeva anche nella preghiera pubblica, ad alta voce, nelle benedizioni e nel ringraziamento, e soprattutto in quella silenziosa e prolungata, soprattutto di notte, come testimoniano i vangeli che lo ritraggono in quel suo ritirarsi di notte il luoghi solitari: “Avvenne in quei giorni che Gesù andò sulla montagna a pregare e vi trascorse la notte in preghiera” (Lc 6, 12). “A Gesù non bastava parlare con le folle – commenta Zevini –, né con i discepoli, né gli bastava servire i fratelli. Avvertiva una solitudine che solo il Padre poteva colmare, una ricchezza che solo il Padre poteva capire e condividere. La preghiera di Gesù esprime la nostalgia del Padre”. A lui quindi anche noi, come i discepoli, possiamo chiedere: “Signore, insegnaci a pregare” (Lc 11, 1).

Dall'editoriale per "Unità e Carismi". Vedi http://unitaecarismi.cittanuova.it/

giovedì 16 agosto 2012

Gli Atti degli Apostoli del XIX e XX secolo


La mattina del 13 luglio 1826 viene celebrata la Messa dello Spirito Santo. Alla fine della celebrazione, leggiamo nelle cronache del tempo, Eugenio de Mazenod «ci rivolse un discorso davvero commovente per farci sentire la bellezza della nostra vocazione. Si sarebbe detto che era la voce stessa del Signore esposto sull’altare, che ci chiamava nuovamente». Usciti dalla cappella, padre Eugenio volle salutare ancora una volta gli Oblati: «Questo, disse, è per la Società l’inizio di un’èra nuova, il Signore ha ratificato i piani che avevamo preparato per la sua gloria; ha benedetto i legami che ci uniscono; d’ora innanzi combatteremo i nemici del Cielo sotto un vessillo che la Chiesa ci ha dato e che sarà nostro. Splende su di esso il nome glorioso della SS. Vergine Maria Immacolata: nome che è il nostro nome, perché siamo consacrati alla Vergine Santissima; siamo in modo particolare i suoi figlioli; la sua protezione, fino ad oggi così tangibile, lo sarà maggiormente per l’avvenire, se saremo degni di tale madre...».
Mostro l’originale degli Atti del Capitolo generale del 1826, dove è scritta la cronaca di quei giorni, a una ventina di studenti di teologia e a una trentina di formatori provenienti da tutto il mondo. Il grande manoscritto è uno delle migliaia di tesori conservato nell’Archivio generale degli Oblati a Roma.
L’Archivio generale: non è una tomba dove muoiono i documenti antichi; è una fonte d’ispirazione. Qui sono conservati gli Atti degli Apostoli del XIX e XX secolo, scritti con la vita di migliaia di Oblati in tutti i continenti, prima di essere trascritti nei documenti. Raccontano di come il Vangelo si è diffuso tra popoli di ogni latitudine e cultura. La Parola, che ha iniziato i primi passi a Gerusalemme, continua la sua corsa…

mercoledì 15 agosto 2012

L’Assunta: Gesù sul trono di Maria, Maria su quello di Gesù

Subiaco: Maria accoglie sul suo trono il Figlio
Subiaco: Il Figlio accoglie sul suo trono
la Madre: la Sposa

Nella recente visita al Sacro Speco di Subiaco ci hanno colpito, nella cappella della Madonna, gli affreschi di due troni. Su una parete il trono della Madre di Dio sul quale ella accoglie suo figlio, Gesù Bambino, che si appoggia alla madre come ogni bambino. Sulla parete di fronte, in basso la “dormitio” della Vergine, ritratta, giustamente, come una donna anziana; in alto il trono del Figlio di Dio che accoglie accanto a sé la Madre. Ma qui ella, a differenza di come appare in basso, è ritratta come una donna giovane e bella; l’Assunta non è più la Madre, ma la sposa che, come descritta nel Cantico dei Cantici, si appoggia allo sposo che la cinge con l’abbraccio.
Oggi, festa dell’Assunta, in Maria vediamo la Chiesa stare davanti al suo Sposo, nella compiutezza della sua vocazione, resa bella dall’opera di salvezza compiuta da Gesù. In Maria possiamo contemplare il nostro dove essere, la nostra vera identità, la meta, già raggiunta da colei che tutti ci rappresenta e tutti ci contiene.
Oggi alla casa generalizia grande festa: siamo o non siamo gli Oblati di Maria?

lunedì 13 agosto 2012

Benedetto e Francesco: i carismi si riconoscono


Era l’anno 1223 quando Francesco d’Assisi visitò il Sacro Speco a Subiaco assieme al Cardinale Ugolino, che il papa gli aveva dato come protettore del nuovo Ordine. L’abate di santa Scolastica, Giovanni VI, avrebbe accolto con grande deferenza il santo e che diede in dono un antico oratorio di campagna, sulla riva sinistra del fiume Aniene. Sempre secondo questa tradizione, in occasione di quella visita, nella cappella di san Gregorio Magno, nel Sacro Speco, fu effettuato il ritratto del santo. Il Santo vi è raffigurato senza le stimmate (che avrebbe ricevuto un anno più tardi) e senza l'aureola, ad indicare che, in quel tempo, egli era ancora vivo. Sarebbe il primo ritratto del santo. Significativa la scritta sul cartiglio regge con la sua mano sinistra: PAX HUIC DOMUI, “Pace a questa casa!”, saluto che Francesco aveva inserito nella sua Regola.
Verità o leggenda il nostro Dom Luigi, nella visita al Sacro Speco, ha preso spunto da questo affresco per raccontarci di come i Benedettini del tempo, fin dai primi tempi di Assisi, avevano riconosciuto il carisma di Francesco e, tutt’altro che sospettosi o invidiosi, avessero fatto di tutto per proteggerlo e favorirlo, al punto da volerlo immortalare nel loro luogo più santo, il Sacro Speco appunto. Lo stesso Spirito Santo che aveva condotto Benedetto in quel luogo e attraverso di lui aveva aperto una nuova di santità nella Chiesa, era ora nuovamente all’opera in un altro umile e piccolo uomo per arricchire che la Chiesa di un ulteriore dono.
Avremmo bisogno della stessa sapienza dei Benedettini di allora per saper riconoscere lo Spirito presente nella sua di oggi.

domenica 12 agosto 2012

Visita a Subiaco: Benedetto è vivo


Il priore, Dom Luigi, ci ha accolto come ci avrebbe accolto san Benedetto in persona, con un sorriso gioioso e benevolo, introducendoci in quello straordinario scrigno d’arte e di spiritualità che è il Sacro Speco di Subiaco. Su e giù per cappelle e ambienti che s’addossano e seguono l’andamento della roccia, non c’è un angolo che non sia stato dipinto, nel desiderio di condividere l’esperienza cristiana che lì si è vissuta e di coinvolgere in quell’ardente mondo dello spirito. La testimonianza del monaco è più eloquente delle pitture stesse, delle opere d’arte che qui si sono raccolte nei secoli; essa dice che la spiritualità di san Benedetto non è soltanto un bellissimo patrimonio del passato, ma è viva e attuale oggi come allora.
Ho portato a Subiaco 40 Oblati di tutti e cinque i continenti, cercando di indovinare quello che poteva passare nell’animo di un indonesiano, di un vietnamita, di un malgascio davanti a questa natura, a questa arte, così lontane dal loro mondo, che pure sanno parlare al cuore di ogni uomo, al di là della diversità di culture, perché vi traspare la voce di Dio, comprensibile in ogni lingua.
L'ultima cena tra Benedetto e Scolastica.
Il monaco guarda preoccupato l'arrivo del temporale
Tutti sono rimasti presi dall’esperienza dell’incontro tra Benedetto a Scolastica: dopo essere stati insieme in «santi colloqui», racconta san Gregorio Magno, per i due fratelli era giunta l’ora di separarsi. Scolastica prega Benedetto di restare ancora, ma non riesce a convincerlo. Allora si pone in preghiera e ecco che si scatena una tempesta che impedisce a Benedetto di uscire di casa per tornare al monastero. «Vedi – spiega Scolastica -, ho pregato te e non mi hai voluto dare retta; ho pregato il mio Signore e lui mi ha ascoltato». Così i due «trascorsero tutta la notte vegliando e si riempivano l’anima di sacri discorsi, scambiandosi a vicenda esperienze di vita spirituale». Tre giorni dopo Benedetto vedrà volare in cielo, come una colomba l’anima della sorella; la seguirà quaranta giorni più tardi.
«Con questo racconto – commenta Gregorio Magno – ho voluto dimostrare che il venerabile Padre… contrariamente a quanto voleva, si trova di fronte ad un miracolo, strappato all’onnipotenza divina dal cuore di una donna. E non c’è per niente da meravigliarsi che una donna, desiderosa di trattenersi più a lungo col fratello, in quella occasione abbia avuto più potere di lui perché, secondo la dottrina di Giovanni: “Dio è amore”; fu quindi giustissimo che potesse di più colei che amava di più». Scolastica non mostra una superiorità letteraria, organizzativa, legislativa rispetto al fratello. In linea con la sua femminilità mostra piuttosto la superiorità dell’amore. Scolastica sa amare più di Benedetto. Una lezione per tutti: l’amore è più potente.

sabato 11 agosto 2012

Il Vangelo del giorno: il pane di oggi


Gesù è il pane disceso dal cielo. È dunque dono del Padre per noi. Non ci ha insegnato Gesù a chiedere ogni giorno al Padre che è nei cieli il pane quotidiano? Abbiamo bisogno del pane materiale, e con esso l’insieme delle realtà materiali necessarie per vivere, ma abbiamo bisogno anche di un altro cibo, di Gesù stesso che si fa nostro pane nell’Eucaristia e nella sua Parola. «L’Eucaristia – ha scritto sant’Agostino – è il nostro pane quotidiano... La virtù propria di questo nutrimento è quella di produrre l’unità, affinché, ridotti a essere il corpo di Cristo, divenuti sue membra, siamo ciò che riceviamo... Ma anche le letture che ascoltate ogni giorno in chiesa sono pane quotidiano».
Sapremo riconoscere questa sua presenza ed andare a lui per vivere di lui? Anche questo, ci dice Gesù nel Vangelo, è un dono del Padre: “Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre”. Perché non coltivare questo rapporto con il Padre nostro, in un dialogo costante e lasciarci guidare dalla sua presenza in noi?

Domenica 12 agosto: Gv 6, 41-51

venerdì 10 agosto 2012

Il Vangelo del giorno: basta un granello di senape


“Spostare le montagne” era un detto, al tempo di Gesù come ai nostri giorni, per indicare imprese impossibili o estremamente difficili. Quella di cacciare il diavolo e con lui ogni forma di male e di cattiveria, è una impresa sovrumana, che non era riuscita neppure ai discepoli di Gesù. Basta guardarci attorno per renderci conto della sua forza tragica, che ci attacca con la malattia, la perdita del lavoro, il tradimento in famiglia, le violenze, le ingiustizie... Quante volte l’abbiamo sentito dentro di noi, più forte di noi, e quante volte ci siamo lasciati vincere da lui.
“Se aveste fede pari a un granello di senape…”. Da soli abbiamo poche possibilità di farcela contro il male che è in noi e attorno a lui, dobbiamo imparare a fidarsi di Dio, sapendo che sta dalla nostra parte! Lui che ha vinto il mondo viene a combattere e a vincere in noi. L’ha sperimentato l’apostolo Paolo che, davanti alla propria debolezza e impotenza, affermava con fede: “Tutto posso in colui che mi dà forza”. 

Sabato 11: Mt 17, 14-20

giovedì 9 agosto 2012

Il Vangelo del giorno: se il chicco di grano...


La più breve e la più bella parabola di Gesù! Sente che è arrivata l’ora tanto attesa di portare a compimento l’opera che il Padre gli ha affidato: prendere su di sé ogni peccato, ogni divisione e ricomporre in unità i figli di Dio dispersi. Per far questo deve dare la sua vita, come il pastore buono dà la vita per il suo gregge. Nessuno gliela toglie, la dona liberamente. È l’amore “più grande”, che lo porta fino a morire per “amici” – ci considera tali! Ma la sua morte frutta la vita: come nella spiga il chicco di grano rinasce moltiplicato, così nella risurrezione Gesù unisce a sé tutti noi e ritrova una infinità di fratelli e di sorelle che vivono della sua stessa vita.
Egli invita anche noi a percorrere il suo cammino, a rivivere la sua esperienza: dare la vita per gli altri, ossia interessarsi a loro, pensare al loro bene, non lasciare mai nessuno solo… al punto da dimenticarsi di noi. Penserà Lui a ricordarsi di noi e, in cambio dell’amore che abbiamo avuto per lui presente degli altri, a darci la pienezza della vita e della gioia.

Venerdì 10: Gv 12, 24-26

mercoledì 8 agosto 2012

Il Vangelo del giorno: l'olio della lampada


La parabola delle damigelle d’onore per la festa di nozze, come ogni parabola, attira subito l’attenzione delle folle che vi rivedono scene di vita a loro familiari. Ma Gesù non si attarda a descrivere usanze note, va dritto all’olio per la lampada: le sagge se lo sono procurato e si salvano, le stolte ne sono sprovviste e sono perdute. 
Anche al termine del discorso della montagna Gesù aveva narrato di costruttori di case saggi e stolti: i primi sono quelli che mettono in pratica le sue parole, gli altri quelli che, come qui le vergini stolte, dicono “Signore, Signore”, ma poi non compiono la sua volontà.
Prepararsi all’incontro con Gesù e avere la lucerna accesa alla sua venuta, significa vivere le sue parole, incentrate nell’amore, che la tradizione cristiana ha sempre visto simbolizzato dall’olio che alimenta le lampade delle vergini sagge. 
La vigilanza e l’attesa chiesta nel Vangelo non è evasione e fuga dal presente, ma impegno concreto e responsabile per costruire il mondo nuovo che Gesù ha inaugurato.

Giovedì 9: Mt 25, 1-13

martedì 7 agosto 2012

Il Vangelo del giorno: le briciole di Dio


La donna pagana non si stanca di invocare Gesù. Si stancano invece i discepoli nel vederla venire dietro, petulante e insistente, e chiedono a Gesù di accontentarla pur di toglierla di torno. Ma Gesù va dritto per la sua strada, ha una missione precisa da compiere: adesso deve dedicarsi al suo popolo; verrà poi il tempo dell’apertura ai pagani, che i Giudei chiamavano “cani” (Gesù preferisce il diminutivo, “cagnolini”, per attenuare il senso spregiativo). La donna sa che per il momento il “pane”, ossia i doni di Dio, è riservato al popolo eletto, ma questo non spegne la sua speranza, anche accende ancora di più la fiducia: può avere almeno le “briciole”?
La cananea sa pregare e ci insegna a pregare. Si esprime in maniera semplice e diretta: “Signore, aiutami”, come Pietro nel vangelo di ieri: “Signore, salvami”. Ma soprattutto sa dialogare con Gesù, lo ascolta, entra nel suo progetto, si arrende alla sua logica per poi riprendere, senza stancarsi, fino a portarlo dalla sua parte. Sa che le “briciole” di Dio valgono più di ogni altro bene.

Mercoledì 8:  Mt 15, 21-28

lunedì 6 agosto 2012

Vangelo del giorno: acque agitate


Gesù manda avanti i discepoli da soli, mentre lui “sale” sul monte. È quasi una prova generale per quando egli, salito al cielo, non sarà più in mezzo ai suoi. Erano abituati ad essere guidati dal Maestro, ad averlo accanto: dava loro sicurezza, infondeva coraggio. Ora senza di lui si sentono perduti. Ma lassù sul monte Gesù stava parlando di loro con il Padre, era più vicino di quanto essi non pensassero, tanto è vero che appare nel momento più critico ed è di nuovo presente.
Quella barca fragile, che sembra sfasciarsi davanti alle tempeste, è diventata simbolo della Chiesa, di noi che si sentiamo sballottati da mille avversità e che a volte abbiamo l’impressione d’essere sperduti e impotenti davanti a situazioni che ci sovrastano. Eppure proprio su quelle acque agitate Gesù si fa presente. Ora che egli è Risorto non è più legato ad un luogo, come quando si trovava sulla terra, ma è vivo e presente nella storia umana e nella vita di ciascuno di noi: “Coraggio, ci sono, non abbiate paura”.
Martedì 7: Mt 14, 22-36