sabato 30 aprile 2011

Il beato Giovanni Paolo II e gli Oblati

Questi giorni, leggendo i giornali, si coglie che qualcuno è un po’ risentito per il fatto che tutti abbiamo dei ricordi personali di Giovanni Paolo II. Sono persone che pretenderebbero l’esclusiva e non si arrendono al fatto che questo papa è stato davvero “popolare”, d’un’umanità straordinaria, capace di conquistare tutti. Ricordo che una persona, in fila da ore per poter vedere la sua salma, alla domanda dell’intervistato che chiedeva perché era venuto da tanto lontano, rispose semplicemente: “Bisognava venire…”. Tutti hanno l’impressione d’averlo conosciuto di persona, anche se l’hanno visto soltanto alla televisione. Me lo conferma una e-mail a commento del mio blog: “Vedere le tue foto con il papa mi fanno pensare a quanto tu sia stato fortunato nel conoscerlo. ho sempre ammirato la figura semplice di Giovanni Paolo II, molto vicino ad ognuno di noi comuni mortali così come è Cristo, uomo fino alla fine su quella croce”.
Anche gli Oblati hanno molti ricordi. A cominciare dagli incontri ufficiali con i capitoli generali del 1980, 1986, 1998, 2004.
Non possiamo dimenticherà la visita, il 14 marzo 1982, alla parrocchia romana del Santissimo Crocifisso tenuta dagli Oblati: l’incontro con la gente e poi, in casa nostra, il lungo affettuoso intrattenersi con tutta la comunità. Come pure la visita, il 5 settembre 2004, alla comunità che curava il centro Giovanni Paolo II a Loreto.
Ha beatificato i nostri Giuseppe Gérard il 15 settembre 1988, a Maséru capitale del Lesotho, e Giuseppe Cebula, il 13 giugno del 1999. Soprattutto ha proclamato santo il nostro Fondatore, Eugenio de Mazenod, il 3 dicembre 1995.
Nei suoi viaggi apostolici ha poi visitato molto delle nostre missioni. Ricordo soltanto il suo viaggio in Canada. Il 10 settembre 1984 era nel Santuario di Cap-de-la-Madeleine. In quella circostanza disse, tra l’altro: “Mi congratulo e incoraggio i missionari Oblati di Maria Immacolata, che 82 anni fa hanno preso in carico questo santuario. Ricordavo questa mattina l’intenso lavoro di evangelizzazione che i vostri confratelli, cari amici Oblati, hanno realizzato e continuano a compiere in tutto il Grande Nord canadese e in molte altre regioni, soprattutto a servizio degli Amerindi. Ma in un certo senso, anche questo ministero di Notre-Dame du Cap-de-la-Madeleine è missionario. Esso deve permettere un rinnovamento del popolo di Dio. E si inserisce nella linea della vostra spiritualità mariana che voi avete contribuito a rafforzare e a diffondere in Canada”.
Lo stesso giorno, nel Santuario di S. Anne de Beaupré, parlando agli Amerindi e agli Inuit volle “specialmente i missionari Oblati di Maria Immacolata. Essi hanno preso in carico questa vasta regione del Grande Nord canadese. Hanno consacrato la loro vita all’evangelizzazione e al sostegno di numerosi gruppi di Amerindi, condividendo la loro vita, diventando i pastori, i vescovi di coloro che sono divenuti credenti. E inoltre sono stati i primi missionari cattolici che sono andati a incontrare gli Inuit e ad abitare con essi per testimoniare Gesù Cristo e fondare la Chiesa; l’intercessione di santa Teresa del Bambino Gesù, patrona delle missioni, ha contribuito a fecondare il loro laborioso apostolato”.
Nel giorno della sua beatificazione, lo sentiremo ripetere:  “Vi incoraggio a perseverare… in modo tutto particolare in una rinnovata unione fraterna, secondo il testamento del vostro santo Fondatore, che ha pensato all’Istituto come a una famiglia, i cui membri formano un cuore solo e un’anima sola” (Agli Oblati, 24 settembre 2004)

venerdì 29 aprile 2011

Santi sì, ma come?

In ogni tempo della storia della Chiesa sono fioriti i santi e le sante. Anche oggi. In ogni epoca lo Spirito ha fatto brillare la luce di Cristo nella santità dei suoi discepoli e delle sue discepole. Ma come la storia della spiritualità ha delle caratteristiche proprie, secondo la cultura, le vocazioni, le correnti di pensiero, gli impegni apostolici e missionari, secondo le caratteristiche stesse della Chiesa, così anche il volto dei santi che sono come i rappresentanti della storia della santità nella Chiesa, nella varietà delle culture e delle vocazioni, presenta caratteristiche nuove.
Nei venticinque anni di pontificato, Giovanni Paolo II ha messo in evidenza il volto nuovo della santità con numerose beatificazioni e canonizzazioni. Molti di questi uomini e donne appartengono al XX secolo, nell’epoca della spiritualità che chiamiamo contemporanea. Sono talmente vicini a noi, da considerarci loro contemporanei. Ne abbiamo conosciuto molti di loro. Adesso Giovanni Paolo II è uno di loro!
Non è soltanto la quantità dei discepoli di Cristo che sono stati elevati all’onore degli altari a costituire un fatto ecclesiale importante. Attraverso i volti dei nuovi santi e beati, noi scopriamo i nuovi volti della santità della Chiesa. Basti ricordare alcune tipologie come quella dei testimoni della fede o i nuovi martiri del secolo XX, i santi bambini, come quelli di Fatima, i giovani, le madri di famiglia, le coppie di sposi, i fondatori di nuove realtà ecclesiali, i laici variamente impegnati nella testimonianza cristiana nel mondo. In essi brilla insieme la novità della vita evangelica vissuta dalla Chiesa ed il volto nuovo della spiritualità.
Forse in avvenire, data la quantità di nuove cause ormai avviate, avremo anche la sorpresa di volti nuovi della santità che rispondono anche ai tratti di novità della spiritualità contemporanea e del futuro. È arrivato il tempo di una approfondita riflessione ecclesiale sugli stessi criteri della santità che devono essere presenti nell’esame delle cause dei santi. (Jesús Castellano)

Per contribuire a questa novità di proposte già in atto la rivista Unità e Carismi invita ad un forum di riflessione e dialogo.
Vi aspetto tutti il 9 maggio in via Marsala, proprio accanto alla stazione Termini di Roma!

giovedì 28 aprile 2011

Con il Beato Giovanni Paolo II / 2

L’ultimo, indelebile incontro, avvenne il 3 ottobre 2004, quando potetti concelebrare ancora una volta con lui, in piazza San Pietro. Ebbi il dono di potergli stare accanto tutto il tempo, senza mai distogliere lo sguardo dalla sua persona. Lo vedevo fatto una cosa sola con la Vittima che si immolava su quell’altare al quale non poteva nemmeno più accedere: concelebrava anche lui, paralizzato nella sua sedia. Quando mi sono inginocchiato davanti a chiedergli la benedizione, ho potuto esprimere, come mai l’avevo fatto prima di allora, la mia gratitudine e riconoscenza per la sua vita. Non una parola da parte sua, non ne aveva più la forza. Mi sono lasciato guardare a lungo negli occhi e ho ricevuto la sua benedizione. Di Giovanni Paolo II mi rimane quello sguardo intenso e puro.

mercoledì 27 aprile 2011

Con il beato Giovanni Paolo II / 1

Raccontare i miei incontri personali con Giovanni Paolo II? Più difficile di quanto non pensassi! Non ricordo più neppure quanti ce ne siano stati, perché considero tali anche quelli assieme a tante altre migliaia di persone. Era un incontro personale con lui anche quando mi trovavo in mezzo alle folle oceaniche di piazza san Pietro, o quando passava le sere d’estate nel cortile del Centro Mariapoli a Castel Gandolfo, con poche centinaia di giovani di Albano, che anch’io accompagnavo, per far festa con loro. Davanti al Papa non mi sono mai sentito perso in una moltitudine anonima, ma sempre presente innanzi a lui e da lui personalmente amato.
Già giovane sacerdote ho ricevuto più volte il dono di poter concelebrare con lui nella cappella privata, sia in Vaticano sia a Castel Gandolfo. Entravo circa trenta minuti prima dell’inizio della S. Messa ed egli era già lì, in ginocchio, testimonianza rimasta indelebile nei miei occhi e sempre presente nel cuore. Guardandolo ho potuto imparare come si prega. Immobile, assorto, totalmente immerso in un altro mondo, dopo la celebrazione era subito pronto a tornare nel nostro mondo, per scherzare, cantare, abbracciare…
Ricordo quando gli donai il mio primo libro. Sicuramente non l’avrà neppure aperto, ma seppe farmi felice lo stesso, manifestando la sua sorpresa meraviglia. In verità più dei libri era contento quando gli portavo un gruppo di giovani o di religiose, o i miei sette diaconi.
Nel 1992 e 1998 sono stato da lui insieme agli Oblati partecipanti al Capitolo generale. Due momenti di grande emozione spirituale, nei quali ci lanciò con forza a vivere la nostra vocazione missionaria in tutta la sua interezza. Quando tornai, durante il terzo Capitolo, il 24 settembre 2004, era già diverso. Non era più il Papa dal grande insegnamento magisteriale, capace di spalancare il cuore e la mente sulle grandi dimensioni ecclesiali e universali che egli aveva attraversato con coraggio. Era condotto in carrozzella, quasi impossibilitato a parlare. Iniziò appena il suo discorso e lasciò che altri ne continuassero la lettura. Eppure comunicava ancora, eccome!, con uno sguardo intenso che suppliva la mancanza di parola. Era debole, ma sentii stringermi forte la mano.

martedì 26 aprile 2011

Tutti alla festa! Appuntamento il 22 maggio

Il 21 maggio celebreremo il 150° della morte di sant'Eugenio de Mazenod.
Per l'occasione grande festa all'auditorium del Divin Amore a Roma.
Il 22 pomeriggio ti aspetta uno spettacolo di alta ispirazione: arte, musica, teatro.
Mettilo in agenda fin da ora, ne vale la pena!

lunedì 25 aprile 2011

Ritorno in Galilea / 3

Sei  la donna che più di tutti l’avevi amato e l’amavi e non sei capace di riconoscerlo. Sempre impossibile. Che ti è successo, Maria di Magdala? Le lacrime t’hanno velato gli occhi? Avete camminato un pomeriggio intero con lui, vi ardeva il cuore in petto per la sua presenza e non vi siete accorti che era il Signore. Come mai? fino a questo punto il dolore aveva indurito il cuore tuo, Cleopa, e quello del tuo amico? E tu Pietro, che hai vissuto così a lungo e intimamente con lui che t’ha fissato negli occhi dopo il tuo rinnegamento, proprio tu, là sul lago, sei incapace di intuire chi è colui che ti dice – e non è la prima volta! – di gettare le reti? Era il sole che col suo riflesso sull’acqua del mattino di accecava la vista?
Non è facile riconoscerti. Occorre tornare in Galilea, per imparare a riconoscerti in questa nuova dimensione. Da lì ci metteremo di nuovo in cammino dietro di te e ci insegnerai dove sei, in chi sei, come trovarti. Ci darai occhi nuovi, quella della fede; ci darai un cuore nuovo, capace d’amore. Nascerà un rapporto nuovo, un nuovo discepolato, una comunità nuova. 

domenica 24 aprile 2011

Ritorno in Galilea / 2

Per la prima volta stanotte ho presieduto la liturgia nella mia nuova comunità, riunita insieme contenta come mai. Nonostante mi sia ritirato a notte fonda, stamani mi sono svegliato molto presto, nell’ora in cui si svegliarono le donne per andare al sepolcro a imbalsamare il corpo di Gesù. Loro afflitte, non sapendo che sarebbe risorto, io pieno di gioia dopo una festosa veglia di risurrezione.
Il pensiero è subito andato all’invito dell’angelo, ripetuto da Gesù: “Che tornino in Galilea”. Sono le prime parole del Risorto. Da lui ci saremmo aspettati un annuncio più solenne, sul tipo di quello all’inizio del suo ministero, proprio in Galilea: “Convertitevi e credete al Vangelo”. Eppure questo della Pasqua non è dissimile da quello. Non è un invito alla “conversione”, ossia ad un “ritorno”, ad un cominciare di nuovo? Non è un invito a credere al nuovo grande straordinario annuncio – la nuova novella, il vangelo, appunto –  che egli è risorto e ancora presente?
Presente? Dove, come? Questa la novità della Pasqua che dobbiamo apprendere di nuovo. Precedentemente, quando per la prima volta partirono insieme con lui dalla Galilea, i discepoli potevano incontrare Gesù a Cafarnao, a Cana, a Tiberiade, a Betania, a Gerusalemme… Dov’è il maestro?, si chiedeva la gente, e le folle si partivano da ogni dove verso un luogo preciso per vederlo, ascoltarlo, toccarlo. Anche le donne, ora che sanno che la sua ultima dimora è la tomba, si muovono presto al mattino per andare a trovarne il corpo.
Ma adesso che la tomba è vuota dove potremo incontrare il Maestro? In questo pomeriggio di Pasqua Claofa e il suo amico lo riconoscono a Emmaus e tornano di corsa a Gerusalemme per annunciarlo ai discepoli. “È apparso anche a Pietro”, rispondo loro. Allora dov’era veramente, si interrogano, a Emmaus o a Gerusalemme? Può essere contemporaneamente lì e qui?
L’ho incontrato nel giardino, riferisce Maria di Magdala; per strada, dicono le altre donne; in casa, continuano i discepoli della prima ora; sul lago, diranno più tardi sette di loro… Può apparire in qualunque più ordinario, in un momento qualsiasi? Il solo posto del quale non si ha notizia che si sia reso presente è proprio là dove ce l’aspetteremmo di più, nel tempio. Al momento della sua morte il velo del tempio si era squarciato, quasi a significare che la gloria di Dio, la sua presenza, non abitava più nel “santo dei santi”, nel cuore segreto e nascosto del tempio, ma si dilatava ormai per le strade e informava i luoghi profani. Il velo squarciato squarciava la separazione tra sacro e profano rendendo tutto santo. La stessa morte di Gesù era avvenuta fuori della mura della città santa, in luogo impuro, per rendere tutto puro e santo.
Posso dunque incontrarlo per strada come le donne e i due di Emmaus, quando meno me lo aspetto, o in giardino come Maria, o in casa come i discepoli, o al lavoro come quelli sul lago. Il mondo si è riempito della presenza del Risorto. Non è più necessario che mi informi su dove si trova il Maestro e intraprendere lunghi viaggi per andare a trovarlo, per vederlo, ascoltarlo, toccarlo. È qui. La sua apparizione sarà un miracolo? Oppure sarà miracolo quando non appare? È qui, presente, vero, ed il prodigio è che egli c’è e non lo si vede!

sabato 23 aprile 2011

Perché tornare in Galilea?

Le donne, andando verso il cenacolo, si sarebbe dette tra loro: “Forse l’angelo si è sbagliato, non ha capito bene il messaggio di Gesù; o forse siamo noi che non abbiamo capito bene. È avvenuto un fatto così sconvolgente – il Signore è risorto! – e noi dobbiamo comunicare una informazione di così scarso valore: tornate in Galilea…”
Quand’ecco apparire proprio lui, il Signore risorto. Chissà quale grande messaggio avrà da rivelare. Ed invece eccolo ripetere lo stesso avviso: “Andate ad annunciare ai miei fratelli che vadano in Galilea: là mi vedranno”. Ma è davvero tanto importante?
Nel mio libro In cerca d perle preziose l’ho domandato allo stesso Gesù: “Perché questo appuntamento in Galilea? Perché di nuovo in Galilea, là dove tutto era incominciato e da dove partisti per il cammino che ti portò a Gerusalemme, luogo del compimento della tua opera?”
Parlando con lui mi è sembrato di coglie tre motivazioni:

Primo. In Galilea i discepoli hanno imparato a seguirti. Ora devono tornare lì per ricominciare da capo e per imparare a seguirti in un modo nuovo e trovarti in modo nuovo. Con la tua risurrezione non sei più come prima, non ti si può più seguire lungo le strade della Galilea e della Giudea. Hai superato le barriere del tempo e dello spazio... Vivi ormai in una dimensione diversa, quella dello Spirito, e sei ad ognuno più intimo che mai.
Ti mostri sul volto di ogni persona che incontriamo, ti nascondi nella più banale circostanza della vita, ci sei accanto in ogni nostra giornata. La novità del tuo essere tra noi – non possiamo più vederti con questi occhi, né udirti con queste orecchie, né toccarti con queste nostre mani – domanda un nuovo tipo di sequela. Dobbiamo imparare ad averti presente e ad esserti presenti in ogni istante – come ti vedessimo con questi occhi, ti ascoltassimo con queste orecchie, ti toccassimo con queste nostre mani.

Secondo. Attendi i tuoi discepoli in Galilea perché vuoi dare loro l’opportunità di ricominciare dopo il fallimento: ti hanno rinnegato, tradito, abbandonato… Si può ricominciare, con un nuovo inizio. Non come se nulla fosse accaduto, ma proprio perché tutto è accaduto. Ed è un ricominciare consapevoli della propria fragilità, senza più presunzioni (“Darò la vita per te”), fatti nuovi dalla tua misericordia, provocati dal tuo amore (“Mi ami tu?”).

Terzo. Dai ai tuoi discepoli, e a noi, l’appuntamento in Galilea perché quella prima irrepetibile esperienza di cammino con te, che da lì ebbe inizio, rimane paradigmatica per i secoli, per ogni generazione. Sempre dovremo leggere e ascoltare le tue prime parole pronunciate in Galilea: “Vieni e seguimi”. Sempre abbiamo da lasciare reti, barca, padre e deciderci per te. Sempre dobbiamo ripercorrere il cammino verso Gerusalemme per apprendere, nell’ascolto attenti di ogni tua parola e con lo sguardo ad ogni tua azione, ad amare e a donarci.

venerdì 22 aprile 2011

La croce e la ciminiera

Le ciminiere di Prato
Prato. Crocifisso di Santa Caterina de Ricci

Il mio primo ricordo del venerdì santo? Non in chiesa, ma in un ambiente di lavoro, tra stoffe e filati. Erano gli anni Cinquanta. Ero un bambino e mi trovavo in via Donizetti dove il babbo lavorava. Alle tre in punto tutte le sirene delle fabbriche si misero a suonare. Solitamente suonavano per scandire i turni di lavoro. Quella volta suonavano per interrompere il lavoro invitando a un attimo di raccoglimento e di silenzio: chiamavano alla preghiera. E il babbo si fermò, in mezzo al piazzale: “È l’ora in cui è morto Gesù”, mi disse; si fece il segno della croce e io con lui.
Ho ancora nelle orecchie il sibilo prolungato delle sirene e negli occhi, indelebile, quel segno di croce nel silenzio della contemplazione. Un venerdì santo vissuto non nel tempio, ma come Gesù fuori le mura della città santa, in luogo secolare; senza il suono delle sacre campane dall’alto dei campanili che in quel giorno tacevano secondo tradizione, ma con quello delle sirene delle fabbriche dall’alto delle ciminiere. La croce mi si confondeva con le ciminiere, l’opera di Dio con il lavoro dell’uomo.

giovedì 21 aprile 2011

Ci fa Dio!

Gerusalemme. Nel Cenacolo


Oggi a Loppiano, a parlare ai giovani dell’unione con Dio. Proprio oggi, giorno nel quale ci è data l’Eucaristia, fatta proprio per farci Dio.
Tornano le parole di Albero Magno: «Questo sacramento ci trasforma in corpo di Cristo, di modo che siamo ossa delle sue ossa, carne della sua carne, membra delle sue membra». «Ogni volta che due cose si uniscono in modo che una si deve trasformare in tutto il resto, allora ciò che è più potente trasforma in sé ciò che è debole. Perciò, siccome questo cibo possiede una forza più potente di coloro stessi che ne mangiano, questo cibo trasforma in sé coloro che lo mangiano». «Coloro che lo hanno ricevuto… diventano concorporei del figlio suo e così sono e si chiamano figli di Dio».
È l’esperienza di Teresa di Lisieux: «Quel giorno non era più uno “sguardo”, ma una “fusione”, non erano più due, Teresa era scomparsa come la goccia d’acqua nell’oceano. Gesù restava solo, era il padrone, il re».
Può diventare la nostra esperienza.

mercoledì 20 aprile 2011

Le prime e le ultime parole di Gesù / 2

Propaganda Fide
sala dei congressi

Quali le ultime parole di Gesù?
Per Giovanni esse sono: «Tutto è compiuto» (19, 30). Telein: Gesù ha condotto fino al limite estremo (telos) il suo amore: «lì amò sino alla fine», fino in fondo, fino all’ultimo. Il compito che il Padre gli aveva affidato è stato condotto in porto in maniera stupefacente. È stato un cammino movimentato, pieno di imprevisti, ma Gesù ha compiuto l’obbedienza ed ha portato a termine la missione.
Per Luca le ultime parole sono: «Padre, nelle tue mani affido il mio spirito» (23, 46). Gesù è sereno, sapendo che tutto è compiuto; non gli rimane che consegnare la sua vita nelle mani di Dio, come già ha fatto dal primo istante della sua venuta nel mondo. È l’attimo estremo dell’obbedienza: rende a Dio lo spirito, il soffio vitale che gli ha donato all’inizio, rispondendo alla sua voce che lo richiama a sé, “nella serena convinzione di un compimento”, come scrive Gérard Rossé.
Per Marco e Matteo è diverso. L’ultima parola, non è più nemmeno una parola, ma soltanto un grido. Anabao, gridare, in Marco. In Matteo krazo, gridare, senza articolare parola, gridare semplicemente dal dolore, non per farsi sentire da lontano. È un grido che continua quello precedentemente articolato (“gridò di nuovo” dice Matteo): «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mc 15, 34; Mt 27, 46). E qui si apre la voragine del mistero.
Quel grido ci lascia intuire fin dove può giungere l’adesione creativa e responsabile al progetto di Dio. Egli affida la missione di portare la Trinità sulla terra e la terra nella Trinità, ma cosa comporta questo passaggio?
Eravamo maledetti e per portarci la benedizione si è fatto lui maledetto: «Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della Legge, diventando lui stesso maledizione per noi, poiché sta scritto: Maledetto chi è appeso al legno» (Gal 3, 13).
Eravamo piagati e ci ha guariti con le sue piaghe: «Dalle sue piaghe siete stati guariti!» (1 Pt 2, 24).
Eravamo nemici di Dio ci ha portati ad essere suoi amici, ma gli è costata la vita: «quand'eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo» (Rom 5, 10).
Eravamo peccatori perché disobbedienti e per costituirci giusti si è fatto peccato; ha dovuto obbedire in maniera radicale come noi mai saremmo stati capaci: «Infatti, come per la disobbedienza di un solo uomo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l'obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti» (Rom 5, 19).
In una parola, per adempiere il volere del Padre e attuare il suo progetto «umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce» (Fil 2, 8). La morte più terribile non soltanto perché la più violenta, ma soprattutto perché quella che, secondo la Legge, rendeva maledetto davanti a Dio.
Gli siamo costati cari, come due volte ricorda Paolo: «siete stati comprati a caro prezzo» (1 Cor 6, 20. 23). Il caro prezzo del riscatto, prova di autentica liberazione, è la morte di Gesù Cristo, come afferma esplicitamente Pietro: «Voi sapete che non a prezzo di cose effimere, come argento e oro, foste liberati dalla vostra vuota condotta, ereditata dai padri, ma con il sangue prezioso di Cristo, agnello senza difetti e senza macchia» (1 Pt 1,18-19). «In lui – leggiamo ancora nella lettera agli Efesini –, mediante il suo sangue, abbiamo la redenzione, il perdono delle colpe, secondo la ricchezza della sua grazia» (Ef 1, 7).
Ha portato a compimento la sua missione non nella forza, ma nella debolezza e la fragilità; non grazie al grande numero, ma nel momento dell’estrema solitudine; non nell’imposizione di un potere, ma nel servizio.
Così la Chiesa è chiamata a compiere la missione.
* * *

Propaganda Fide
Con il Cardinal Dias
Le prime parole di Gesù coincidono con le ultime. Tutta la sua vita è sottesa tra un proposito di obbedienza e il suo piena adempimento. Il punto più alto del compimento è stato in quel grido che sembra porsi all’antitesi di quella che era a missione: rivelare Dio e mettere in comunione con lui, creare l’unità della famiglia umana.
L’annuncio sembra contraddetto dal grido inarticolato, la comunione dall’estremo abbandono, la luce dalla tenebra, l’unità dalla divisione e dalla solitudine.
Eppure quel grido, riportato da Matteo e Marco, coincide con l’affidamento e la consegna di sé al Padre, come in Luca; con il pieno compimento del mandato ricevuto nell’obbedienza più perfetta e nella sovrabbondante fecondità, come in Giovanni.
«Ecco, io vengo a fare la tua volontà… Mediante quella volontà siamo stati santificati per mezzo dell'offerta del corpo di Gesù Cristo, una volta per sempre» (Eb 10, 9-10)
Quell’offerta, ha spiegato Benedetto XVI ai parroci e ai sacerdoti della diocesi di Roma, 11 febbraio 2010, fa capire «che le lacrime di Cristo, l’angoscia del Monte degli Ulivi, il grido della Croce, tutta la sua sofferenza non sono una cosa accanto alla sua grande missione. Proprio in questo modo Egli offre il sacrificio, fa il sacerdote… questa è la realizzazione del suo sacerdozio, così porta l’umanità a Dio, così si fa mediatore, così si fa sacerdote».
Nell’adempiere la volontà di Dio e la missione che egli ci affida, nel dare la vita per i fratelli come Gesù e in Gesù, ognuno di noi può diventare sacerdote, portando la Trinità in terra e la terra nella Trinità.

Ho dato questa meditazione questa mattina a tutti i membri e al personale della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, a Piazza di Spagna.

martedì 19 aprile 2011

Le prime e le ultime parole di Gesù / 1

Gerusalemme - L'orto degli ulivi

Tutti avremmo voluto essere lì, ad ascoltare Gesù quando parlava, e rimanerne incantati come le guardie del tempio: «Mai un uomo parlò come parla quest’uomo» (Gv 7, 46), o come Pietro: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna» (Gv 6, 68).
Capisco come gli studiosi ricerchino gli ipsissima verba Jesu, proprio le parole dette da Gesù, anche al di fuori dei Vangeli, come quella che riporta Paolo: «C’è più gioia nel dare che nel ricevere», o quella che ci è stata lasciata nel Vangelo di Tommaso: «Chi è vicino a me, è vicino al fuoco».
Quale sarà stata la prima parola che ha pronunciato Gesù quando iniziò a parlare? Non è riportata da nessun testo, ma sicuramente, come per ogni bambino, sarà stato … mamma (con una m sola, in aramaico).
Conosciamo però con sicurezza le prime parole che il Verbo ha pronunciato nell’atto di diventare uomo:
«entrando nel mondo, Cristo dice:
Tu non hai voluto né sacrificio né offerta,
un corpo invece mi hai preparato.
Non hai gradito
né olocausti né sacrifici per il peccato.
Allora ho detto: "Ecco, io vengo
- poiché di me sta scritto nel rotolo del libro -
per fare, o Dio, la tua volontà"» (Eb 10, 5-7).

È la stessa parola con cui inizia l’avventura di Maria di Nazaret: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola» (Lc 1, 38).
La stessa parola che lancia ogni battezzato dietro Gesù, nella piena disponibilità a fare quello che lui desidera: “Ti seguirò ovunque andrai… Andiamo anche noi a morire con lui…”.
La stessa parola con cui inizia avventura di ogni Oblato: Eccomi, mi dono interamente al tuo progetto, perché si attui la tua volontà, perché si compia la tua parola.

Cristo, entrando nel mondo, mette la sua vita nelle mano del Padre, a completa disponibilità, per compiere la grande missione: l’ut omnes, portare la Trinità in terra e la terra nella Trinità.
Lo stesso per noi, mandati a battezzare nel nome del Padre, del Figlio, dello Spirito Santo (cf Mt 28, 19), ossia ad immergere interamente tutte le gente nella realtà della santissima Trinità.

Questa la linea, la direzione che Dio apre davanti.
Per il resto? Ha ricevuto un corpo, ossia un’intelligenza, capacità, talenti, e proprio per questo è nelle condizioni di investire tutto, con creatività. Come quando qualcuno chiede la costruzione di un edificio: all’architetto sbizzarrirsi e far restare a bocca aperta il committente che non si aspetterebbe un’opera così bella, soluzioni tecniche tanto ardite…
In effetti Gesù più e meglio di quanto ha fatto non poteva fare: parole di sapienza, miracoli…

Nell'orto degli uvili
Ma non si aspettava che la realizzazione del progetto fosse tanto costosa. All’ultimo momento, quando si trattava di porre il gesto finale che avrebbe dato compimento all’opera, rimase col fiato sospeso, sembrando sul punto di gettare la spugna: «Allontana da me questo calice – dove “calice” sta proprio per “volontà di Dio” –… Lo spirito è pronto, ma la carne è debole» (Mc 14, 36.38).
Eppure lo slancio iniziale era stato generosissimo, senza il minimo ripensamento: “Ecco, io vengo… per fare, o Dio, la tua volontà”;  “avvenga per me secondo la tua parola”; “ti seguirò ovunque andrai”.
Ora è il tempo di “forti grida e lacrime”, di imparare l’obbedienza (= l’attuazione del progetto affidato) attraverso il patire (cf Eb 5, 7-8).
Davanti al profilarsi ad un esito inatteso (previsto, ma non in maniera così drammatica), Gesù «cominciò ad avere paura e smarrimento» (Mc 14, 33).
Ekthamneístai: impietrito e sconcertato, come quando qualcosa di terribile accade di colpo davanti agli occhi; è la paura.
Ademoneín: grande ansietà, angoscia perché solo davanti a qualcosa di spaventoso.
Gesù lo confessa: «Sono triste da morire» (Mc 14, 34). Fino a sudare sangue, in un’agonia (= la lotta estrema) che lo conduce alla morte (cf Lc 22,44). C’è bisogno che un angelo dal cielo venga a rincuorarlo (cf Lc 22, 43)!
Il progetto di Dio sembra entrare in conflitto con i nostri progetti. Vorremmo qualcosa di diverso, andare in un’altra direzione, scegliere altri modi di vivere e di agire.
Eppure Gesù va avanti e rimane coerente con il progetto, anche se sembra assurdo: «però non quello che voglio io, ma quello che vuoi tu» (Mc 14, 36); «non come voglio io, ma come vuoi tu» (Mt 26, 39); «non la mia volontà, ma la tua sia fatta (Lc 22, 42); «Che posso dire? Padre, salvami da quest’ora? Ma per questo sono giunto a quest’ora!» (Gv 12, 27).
Gesù va avanti coerente con la parola data, la sua prima parola: «Ecco, io vengo… per fare, o Dio, la tua volontà». La compie veramente, nonostante tutto. E noi con lui!

lunedì 18 aprile 2011

Il ritratto di una spiritualità / 3 - Semplicemente Oblato



Il quadro che ritrae p. Juanito ha un titolo: “Oblatus est quia ipse voluit”. È la frase che in alto domina la pittura, ma può essere considerato anche il nome di colui che vi è ritratto. Non è il nome di battesimo, Jean Maria Giuseppe Francesco, e neppure quello di famiglia, Bretault, ma piuttosto il nome che definisce la sua intera vita: Oblato! Quello che p. Joseph Rose ha voluto dipingere è semplicemente il ritratto di un Oblato.

La frase, “Si è offerto (questo il significato di Oblato) perché l’ha voluto lui stesso”, è tratta dal libro del profeta Isaia (53, 7), che parla del “servo del Signore” che prende su di sé i peccati del popolo e si lascia immolare, come un agnello innocente e silenzioso, al posto dei peccatori e dei malvagi. Sono parole che riprenderà Giovanni il Battista quando vede arrivare Gesù sulle rive del Giordano: “Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo” (Gv 1, 29). Oggi, la nuova traduzione della Bibbia, redatta sui testi originali, non usa più la parola “Oblatus”; dice piuttosto che “Maltrattato, si lasciò umiliare”, ma la sostanza è la stessa: quell’uomo misterioso di cui parla Isaia, preannuncia il Salvatore che, venendo nel mondo, si offre al Padre per compiere la sua opera, a costo della propria vita. Nessuno gli toglie la vita, dice Gesù parlando della propria morte, egli stesso la dona liberamente, lo vuole lui stesso, si offre tutto al Padre per noi. Gesù, così potremmo tradurre liberamente le sue parole, senza tradirle, è un “Oblato”, ha dato tutto e si è dato tutto al Padre, senza risparmio, per amore nostro, espressione dell’amore più grande, quello che sacrifica la vita per gli amici.

Cinquant’anni di donazione

Sul quadro, in alto, sono segnate due date: 1870-1920. La prima ricorda l’anno nel quale p. Jean Bretault, nello scolasticato di Autun in Francia, fece la sua professione perpetua o, come si diceva e si dice ancora tra gli Oblati, l’oblazione. Quel giorno, come ogni anno dal 1844, si cantò “Sacrificio d’amore”, nel quale che diceva, fra l’altro: “Un cuore ardente e puro s’immola a Dio. / Vittima di salvezza, / Dio Salvatore dell’umanità, / per seguirti sul Calvario / alla mia libertà rinuncio. / La tua croce sarà la mia speranza, / il tuo esempio la mia legge: / amore e sofferenza / possano crocifiggermi con te!”.
La seconda data, 1920, ricorda i cinquant’anni d’oblazione. Fu in quella occasione che p. Joseph Rose dipinse il quadro del più anziano missionario del Sud, ormai famoso, come si legge in un articolo di quell’anno, pubblicato sul “Southern Messenger”: “Il nome di Francesco Saverio non è più famoso in Asia di quello di p. Juanito sulle sponde del Rio Grande”. In un altro articolo dello stesso giornale è riportata la cronaca del giubileo d’oro. La festa  si tenne al noviziato, dove il vecchio missionario si trovava a riposo dal 1929. Era “ultima reliquia della famosa squadra di Padri nota come la cavalleria di Cristo, che per cinquant’anni, a prezzo di incredibili sacrifici, ha tenuta viva nei cuori dei poveri Messicani la scintilla della fede che covava sotto la cenere. (…) Le sue esperienze non sono mai state messe per iscritto, ma costituiscono uno dei più straordinari capitoli del Libro della Vita. Quarant’otto anni a cavallo attraverso cactus e boscaglie desertiche, poi trasformate in una magica valle dall’intraprendenza degli Americani”.
Con stile poetico il giornale continua a narrare della celebrazione, tenuta il 15 agosto: “Se gli Oblati non avessero celebrato quell’anniversario, le pianure e le colline della Valle dei Rio Grande, attraversate in lungo e in largo sul fedele destriero, le antiche acacie e gli alberi spinosi alla cui ombra cucinava il suo magro pranzo e riposava con la sella per cuscino, avrebbero protestato contro tanta ingratitudine. Gli Oblati invece hanno celebrato la festa, e che celebrazione! P. Juanito apparve grande e venerabile, quella mattina del 18 agosto 1920, indossando vesti nuove, con un calice nuovo in mano, dono dei suoi fratelli Oblati. Come cantò, nonostante i suoi settanta sette anni. Trenta Padri a far corona attorno, decorazioni di muschio spagnolo, messa del glorioso giubileo, pranzo di festa… tutto per Padre Juanito”.
Un gruppo di compagni di p. Jean Bretault
allo scolasticato di Autun
in occasione della loro ordinazione sacerdotale
nel 1867

Il senso dell’oblazione

Mentre p. Joseph Rose dipingeva il quadro avrà pensato anche alla propria oblazione, avvenuta il 19 agosto 1897, a Hünfeld, in Germania. La sua, a differenza di quella di p. Juanito, a seguito dei nuovi ordinamenti canonici, era stata preceduta da un anno di professione semplice. L’oblazione lo aveva segnato per tutta la vita, informando il suo sacerdozio missionario. Proprio in occasione dei 50 anni dalla sua ordinazione sacerdotale, scriverà al superiore generale che, “essendo prima Oblato e poi prete”, aveva potuto comprendere quale fosse il suo “dovere”: “consacrare la mia vita, come Oblato, all’evangelizzazione dei poveri”.
Questa parola, oblazione, ha finito per indicare non soltanto l’azione di consacrazione attraverso i voti, ma la persona stessa dei missionari – Oblati – come pure la loro vita e la loro missione.
Gli Oblati, sotto una spinta misteriosa della grazia dello Spirito, e in risposta all’appello di Gesù che li chiama a seguirlo, si donano completamente a Dio, amato sopra ogni cosa, si abbandonano alle sue mani. La totale donazione a lui si trasforma in donazione altrettanto totale alla Chiesa, alla gente, alla missione, diventando espressione del lor amore verso tutti.
Siamo nella più pura spiritualità cristiana: ognuno è chiamato ad essere un altro Gesù che tutto si dona: tutti Oblati, come lo è lui! Il “tutto è compiuto” di Gesù sulla croce è la prova di come l’intera sua vita sia stata un’oblazione di tutto se stesso al Padre e al suo progetto d’amore, fino all’ultimo istante. Sono le parole che sentiamo riecheggiare nella Regola di sant’Eugenio: “sacrificarsi… fino alla morte”.
Si può lavorare alla salvezza del mondo soltanto se si è Gesù il Salvatore. Egli ci ha salvato non quando ha parlato o fatto miracoli, ma quando, nella croce, si è offerto senza né parole né miracoli, ma con l’oblazione della vita. Così la nostra oblazione: essere uniti al Signore al punto da divenire un altro lui e come lui “vivere” in una costante offerta di sé, fino a poter dire al Padre, insieme a lui: “Tu non hai voluto e non hai gradito né sacrifici né offerte… Ecco, io vengo a fare la tua volontà” (Eb 10, 8-9). Così si diventa veramente corredentori di Cristo: si è missionari perché si è Oblati.

domenica 17 aprile 2011

Roma con occhi di bambina

Una giornata a Roma con Irmala mi ha fatto vedere la città con occhi nuovi, mi ha svelato nuovi particolari.
Occorrerebbe rivisitare ogni angolo di vita con occhi di bambino e scoprire cose sempre nuove.


sabato 16 aprile 2011

La Scuola Abbà, luogo di Paradiso

Giornata intensa di Scuola Abbà. 23 professori che si fanno studenti, discepoli della Sapienza. Ricordo quanto Chiara Lubich ci disse il 22 novembre 2003, all’inizio del nuovo anno accademico, a proposito del nostro “libro di testo”:
“Questa volta lo leggiamo allo scopo di convertirci, traducendolo in vita. Dobbiamo far in modo che la Scuola Abbà, diventi Paradiso”.


venerdì 15 aprile 2011

Un tuffo nell’antica Roma

Un tuffo nell’antica Roma che ti lascia col fiato sospeso. Per quanto hai studiato storia e arte non puoi immaginare tanta bellezza. Tra litigi e tragedie della politica italiana, almeno questa è un’iniziativa riuscita: la settimana della cultura, che apre a tutti i musei (anche se la metropolitana chiuse). Così ne ho visto almeno uno, il Museo nazionale romano di Palazzo Massimo, ricco di una raccolta archeologica tra le più importanti del mondo.
Quattro piani di statue, affreschi, mosaici e i più vari reperti archeologici che fanno intuire la grandezza di Roma. I volti scavati nel marmo sono così reali che ci puoi parlare, da quelli di persone anonime ai grandi della storia, a partire dalla celeberrima statua di Ottaviano Augusto, in veste di Pontefice massimo. Il bronzo del pugile in riposo ti galvanizza e non vorresti più smettere di ammirarlo. Poi, con sorpresa, i sarcofagi cristiani con scene evangeliche dominate da un Gesù Maestro solenne e insieme vicino alla gente. Certo, una Roma cristiana!
Ti ritrovi infine nelle sale degli affreschi del ninfeo sotterraneo della villa di Livia, moglie di Augusto, ti siedi, e sei attorniato da un giardino dipinto con alberi da frutto e uccelli sui quattro lati. Oppure puoi passare nella villa Farnesina e ti sembra di essere nella villa dei misteri a Pompei: gli affreschi si fanno miniature delicate...
Quattro ore sono passate in un soffio. Gli occhi, che devi chiudere davanti a tante brutture, si sono rifatti con la bellezza dell’arte; l’animo, che si restringe quando sente le cronache del parlamento, si dilata sulla grande storia. Più cultura, per favore, per un respiro più ampio e per acquistare nuove capacità di affrontare la storia di oggi.

giovedì 14 aprile 2011

Una biblioteca a portata di clic

La chiesa degli Oblati a Inchicore, oggi
Padre Joseph Fabre
fondatore di Missions

Era il sogno che sant’Eugenio aveva accarezzato per tutta la vita: vedere convergere al centro della Congregazione le testimonianze del lavoro missionario degli Oblati per poi ritrasmetterle a tutti i suoi membri sparsi nel mondo, in modo perché ognuno trovasse ispirazione e sostegno per andare avanti nell’annuncio del Vangelo.
Un sogno che si realizzò subito dopo la sua morte, grazie al suo successore, p. Joseph Fabre, che diede vita a “Missions de la Congrégation des Missionnaires Oblats de Marie Immaculée”, una rivista quadrimestrale. Fin dall’inizio, assieme alle relazioni dalle missioni, la rivista pubblicò documentazioni sulle origini dell’Istituto, gli atti dei Capitolo generali, studi sulla storia e le opere degli Oblati. Oltre cento volumi che racchiudono un patrimonio prezioso e unico per conoscere la vita degli Oblati.
Iniziata nel 1862, nel 1971 cambiò nome, prendendo il nome latino di “Missio”, per terminare la pubblicazione l’anno seguente, nel 1972.
Oggi questo immenso tesoro è a portata di clic! http://www.omiworld.org/missioni.asp
E con un clic anch’io sono andato a leggere il primo numero (1862).
Padre Cooke
La fabbrica di Inchicore
Il primo articolo, scritto dal provinciale dell’Inghilterra, p. Cooke, mi lascia già a bocca aperta. Riguarda la casa di Inchicore in Irlanda, a due km da Dublino, dove gli Oblati erano arrivati cinque anni prima. Quartiere operaio, nel quale si costruiscono le carrozze per i treni. Più di 1.000 gli operai. Niente chiesa, niente pratica religiosa.
Gli Oblati chiamano all’appello gli operai. Si presentano in 700 e si mettono a disposizione per lavorare dalle 6 alle 10 di sera, tassandosi per tutte le spese. In quattro giorni costruiscono la chiesa!
C’è una scuola protestante con 240 ragazzi cattolici. Il vescovo chiede agli Oblati di prenderli a scuola con loro e 200 passano da loro.
Da Dublino, dove non mancano certo le chiese, la gente comincia ad andare a confessarsi nella chiesa provvisoria costruita a Inchicore…
Non c’è male come inizio di lettura…

mercoledì 13 aprile 2011

Cammino verso la Pasqua / 10: "Viatico"

Quando si fa un viaggio, uno dei momenti più simpatici è quando ci si ferma per il pranzo a sacco. Il massimo è se c’è un piccola tovaglia da distendere sul prato e se ci si siede per terra in compagnia. Si tirano fuori i cibi più semplici, ma hanno un sapore tutto particolare. E poi, molto più prosaicamente, se non si mangia le forze vengono meno e non si va più avanti.
Anche per l’altro “viaggio” occorre fermarsi a mangiare. Gesù imbandisce la mensa e offre il pane della vita, il pane che dà forza. Come la traversata nel deserto del popolo d’Israele fu sostenuta dalla manna, anche la nostra traversata della vita ha bisogno di un pane che scende dal cielo.
Ultima parola del nostro viaggio potrebbe essere proprio: “viatico”. È il nome che si dà all’Eucaristia portata a quanti stanno per morire, come estremo sostegno per l’ultimo passo verso la meta. Ma anche l’Eucaristia di ogni giorno può essere chiamata “viatico”, cibo della via. È quello che chiediamo ogni giorno: “dacci oggi il nostro pane quotidiano”, più buono quando lo si mangia insieme!
«L’Eucaristia – scrive Agostino – è il nostro pane quotidiano... La virtù propria di questo nutrimento è quella di produrre l’unità, affinché, portati a essere il corpo di Cristo, divenuti sue membra, siamo ciò che riceviamo... ma anche le letture che ascoltate ogni giorno in chiesa sono pane quotidiano, e l’ascoltare e recitare inni è pane quotidiano. Questi sono i sostegni necessari al nostro pellegrinaggio terrestre».

martedì 12 aprile 2011

Ti sono piaciuta? / 5 – Sì, se…


Domenica scorsa: Un bellissimo pomeriggio con un bel gruppo di gente.
Ho raccontato le solite cose, ma sono venute bene.
E la gente era contenta, molto contenta.
Grazie a Dio sono piaciuto a loro… allora sono piaciuto anche a Dio!

lunedì 11 aprile 2011

Un ramo su cui possono posarsi gli uccelli

Ho visto per la seconda volta il film “Uomini di Dio”, sui Trappisti uccisi in Algeria. In uno dei dialoghi tra i monaci e la famiglia del capo villaggio mi è sembrato di scorgere il senso della vita consacrata nel mondo di oggi:

- Dovreste chiedere la protezione dell’esercito – dicono al capo villaggio
- La nostra protezione siete voi – risponde loro.
- Forse noi ce ne andiamo.
- Perché ve ne andate?
- Siamo come gli uccelli su un ramo… Non sappiamo se dobbiamo andarcene…
- Gli uccelli siamo noi, il ramo siete voi.

domenica 10 aprile 2011

Una poesia di Martha Medeiros


"Lentamente muore chi diventa schiavo dell’abitudine,
ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi,
chi non cambia la marca o colore dei vestiti,
chi non rischia,
chi non parla a chi non conosce. …
Lentamente muore chi non viaggia,
chi non legge,
chi non ascolta musica,
chi non trova grazia e pace in sè stesso.
Lentamente muore chi distrugge l’amor proprio,
chi non si lascia aiutare,
chi passa i giorni a lamentarsi della propria sfortuna.
Lentamente muore chi abbandona un progetto prima di iniziarlo,
chi non fa domande sugli argomenti che non conosce,
chi non risponde quando gli si chiede qualcosa che conosce.
Evitiamo la morte a piccole dosi,
ricordando sempre che essere vivo richiede uno sforzo di
gran lunga
maggiore
del semplice fatto di respirare!
Soltanto l’ardente pazienza porterà al raggiungimento di
una splendida
felicità."