Aveva
23 anni quando arrivò qui a Durban, in Sud Africa. La vita era dura, anzi
durissima. Ma soprattutto sembrava impossibile che i cuori si aprissero a
Cristo. Dopo tre anni di lavoro con gli Zulu il beato Giuseppe Gérard scriveva
a sant’Eugenio de Mazenod: “Per ora ci troviamo in una situazione davvero
difficile, sembra tutto un fallimento. Gli Zulu sono duri, hanno un cuore duro…
E i nostri cuori soffrono. Ma non sono scoraggiato. Sono contento di stare dove
sono stato mandato, e se dovessi ricominciare oggi continuerei a privilegiare
questa regione con questi poveri Zulu”.
L’amore
era concreto: visitare i malati nelle capanne, salutare tutti, parlare con
tutti, interessarsi di tutto, distribuendo medicine, nella convinzione che: “il
linguaggio della carità è molto più convincente del linguaggio delle labbra: va dritto al cuore”.
Tutto
dedito agli altri. Ma la gente percepiva qualcosa di più profondo, e a bassa
voce si diceva: “Il padre Gérard parla con Dio, vede Dio; ma certo non vuol
dirlo. Quando prega è come se mangiasse miele”.
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