venerdì 31 marzo 2023

Giovanni Paolo II alla parrocchia del SS. Crocifisso

2 aprile 2005. L'indimenticabile Giovanni Paolo II ci lascia per il cielo. Sono tanti i momenti che lo legano agli Oblati. Uno fra tutti.

Sembra che quest’anno gli Oblati chiudano la comunità di via Bravetta a Roma e lascino la parrocchia del SS. Crocifisso a loro affidata nel lontano 1957. E' dunque d'obbligo quest'anno ricordare – per l’ultima volta – la visita di papa Giovanni Paolo II a quella comunità e a quella parrocchia, il 14 marzo 1982, 41 anni fa.

Una giornata indimenticabile, organizzata soprattutto da p. Nino, allora viceparroco da appena un anno e oggi ultimo parroco. L’incontro con la gente non poteva essere più caloroso, così come fu affettuosissimo il suo intrattenersi in casa nostra, con tutta la comunità.

La vigilia, come era sua abitudine, aveva invitato il parroco, p. Ferdinando Castaldi, e alcuni collaboratori a pranzo da lui. La domenica pomeriggio, appena arrivato in parrocchia, alle 16.00, si era fermato una mezz’ora con le persone per salutarli ad uno ad uno. Poi in chiesa, strapiena di bambini: ha parlato con essi, li ha accarezzati, li ha interrogati, ha cantato con loro…

Alle 17.00 al campo sportivo per la celebrazione eucaristica: un sole splendente dopo giorni di pioggia.

Dopo la messa gli incontri con i vari gruppi nelle sale parrocchiali. Tra gli altri i chierichetti, i catechisti, religiose e religiosi delle comunità presenti in parrocchia…, visita al convento delle Carmelitane. Infine in casa dagli Oblati… Ed è proprio il caso di dirlo… c’ero anch’io! Ma c’era anche p. Giovanni Santolini, p. Paolo Archiati, p. Santino, p. Angelo…

L’omelia, nella terza domenica di Quaresima, metteva giustamente al centro Cristo e Cristo crocifisso: «In queste parole della lettera ai Corinzi, Paolo di Tarso pronunzia il suo messaggio apostolico. “Noi predichiamo Cristo crocifisso” che è “potenza e sapienza di Dio”… Oggi mi avviene di visitare la parrocchia del “santissimo Crocifisso”. Lo faccio, come Vescovo di Roma, per amore alla vostra comunità e con profonda venerazione per Cristo Crocifisso. La vostra Parrocchia non rispecchia forse, già con lo stesso nome, il messaggio di Paolo ai Corinzi, e quindi a tutti i cristiani, a tutti gli uomini? Parrocchia del “santissimo Crocifisso”! (…) Ognuno guardi il Crocifisso e pensi che anche per lui c’è sempre il “caro prezzo”. A tale prezzo, infatti, siamo comprati mediante la Croce!».

Poi il saluto a tutti: «Porgo prima di tutto il mio saluto riconoscente al Cardinale Vicario, al Vescovo responsabile di questa Zona della diocesi, al Parroco, Padre Ferdinando Castaldi, ed ai suoi collaboratori, tutti appartenenti alla Congregazione dei Missionari Oblati di Maria Immacolata e approfitto di questa circostanza per salutare il Superiore Generale della Congregazione. Saluto poi con grande gioia le 5.000 famiglie componenti la parrocchia».

Infine l’esortazione conclusiva: «La mia esortazione, carissimi fedeli, non può essere che una e semplice: assecondate le iniziative dei vostri sacerdoti! Esse coprono l’intero anno liturgico e intendono raggiungere ogni ceto di persone: dalla settimana per i bambini della Prima Comunione a quella dei ragazzi della Cresima; dalla preparazione dei genitori per il Battesimo dei figli a quella dei fidanzati per il matrimonio; dagli incontri di catechesi per i giovani a quelli per gli adulti; dalla pastorale della famiglia a quella per i malati; dalla cura per le Vocazioni all’attività liturgica. È un piano di lavoro assillante, in cui i vostri sacerdoti impegnano tutto il loro tempo, l’intera loro vita! Molto validi ritengo il “cammino di preparazione alla Cresima”; la “Scuola per i Catechisti” e la “Settimana Biblica”: sono mezzi importanti, specialmente oggi, per approfondire in modo globale ed esauriente la vostra fede per viverla poi con coerenza e coraggio nella società moderna. Partecipate con spirito di autentica dedizione alle attività parrocchiali, per essere e sentirvi sempre più cristiani convinti, lieti e fervorosi, aperti alla carità ed all’aiuto reciproco».







giovedì 30 marzo 2023

Sguardo

Che occhi grandi quelli delle divinità indù! Mi ero mescolato in mezzo a una folla che avanzava ondeggiante, compatta, ognuno con un fiore in mano, un pugno di riso da offrire al dio. La statua, nel fondo oscuro del tempio a Mumbai, rimaneva distante, inaccessibile, non la si poteva toccare, ma la si poteva guardare. E il dio ti guardava, con occhi grandissimi. Mi tornò alla mente la preghiera di Salomone: «Siano attenti i tuoi occhi alla preghiera del tuo servo e del tuo popolo Israele». Di solito si dice: “Ascolta quello che dico”. Uno parla e vuole che l’altro lo ascolti, si suppone con le orecchie: “Presta orecchi a quello che dico”. Salomone invece chiede a Dio di “guardare” la sua preghiera. Non diciamo a volte anche noi: “Guardami quando ti parlo!”. Soltanto quando l’altro mi guarda mi rendo conto se mi sta ascoltando veramente. Abbiamo bisogno che Dio ci guardi. 

“Dio ti guarda!”. Sembra una minaccia, quasi fosse un “guardiano” a difesa di un territorio da indebite invasioni, una “guardia” pronta a punire chi sbaglia. O non è piuttosto, quello di Dio, lo sguardo premuroso che somiglia a quello di una mamma o di un papà attento al figlio, che non si faccia male? Quante sfumature può avere lo sguardo: sfrontato e viola la persona, indagatore e inquieta, altezzoso e umilia, sfuggente e ignora… Lo sguardo di Dio mette a proprio agio, custodisce. È amorevole: “E Gesù, guardatolo, lo amo”. Amorevole anche quando sembra duro. Quando, dopo essere stato rinnegato, Gesù incatenato si voltò e guardò Pietro com’era il suo sguardo? Di rimprovero, di misericordia? Pietro, vedendo su di sé quello sguardo, si ricordò della prima volta che Gesù lo aveva guardato sulla riva del lago, e pianse. Fu liberato da quello sguardo.

Quando i bambini giocano spesso si rivolgono ai genitori o ai compagni: “Guardami!”. Hanno bisogno di essere presi in considerazione. Se nessuno ti vede che gioco è? non c’è soddisfazione.

Se non c’è su noi uno sguardo d’amore, la nostra che vita è?

mercoledì 29 marzo 2023

Resurrezione di umanità

“Resurrezione di umanità”. Così il vescovo definisce casa Santa Maria che oggi festeggia i suoi 100 anni. I racconti che ci susseguono sul palco sono tanti, perché 100 anni sono tanti. Racconti di inclusioni, di iniziative le più varie, con laboratori creativi, orti, ma anche gite, passeggiate in città per rendere il più attive possibile le “ragazze” con disabilità che si sono succedute in questa casa lungo i 100 anni. Ma anche le difficoltà, le incomprensioni, i rifiuti nei luoghi pubblici di persone fuori dai soliti schemi.

Come sono capitato qui? A novembre scorso mi chiedono di fare una conferenza all’Università Salesiana. Però la vogliono a due voci, e che l’altra voce sia femminile. Domando in giro e mi danno il numero di cellulare di una certa suor Michela. Non la conosco. Esitante le mando un messaggio: “Sono p. Fabio Ciardi. Possiamo parlare un attimo? Vorrei invitarla a fare una conferenza insieme a me al corso dei formatori all’UPS il 24 febbraio sulla vita consacrata oggi”. Con sorpresa mi giunge subito la risposta: “Quale gioia ricevere un messaggio da p. Fabio. Ci siamo incrociati più volte dalla mia Simonetta a casa e all’hospice… domani ci sentiamo… Come prima cosa guardo agenda (dovrei essere a Dijbouti/Somalia ma non ricordo bene i giorni) e poi dipende da cosa mi chiede… Buonanotte. Suor Michela”. Lei mi conosce? Ci siamo incontrati da Simonetta? Ricordo che qualche volta ci siamo incrociati da Simonetta con una suora, ma non potevano stare a lungo assieme per il Covid. Un’amica di Simonetta? Ma io sto scrivendo un libro proprio su Simonetta. Non vedo l’ora di incontrarla.

Arrivo così a Casa Santa Maria. Ci sono passato davanti tante volte, ma non mi sono mai domandato chi abitasse in quel grande complesso. Scopro un mondo! È una casa di don Guanella, dove vivono 150 donne con le più varie disabilità che chiamano semplicemente le “ragazze”.

E scopro suor Michela. Era l’anello mancante nella mia storia di Simonetta. Adesso capisco come aveva fatto a diventare il direttore sanitario di don Guanella. Posso quindi lasciare che “Simonetta” mi lo racconti: “Tutto era iniziato ad Ancona, quando incontrai sr. Michela, un vulcano di donna. Allora era responsabile del Villaggio delle ginestre, il Centro per disabili a Recanati. Cercava un direttore sanitario e le fu fatto il mio nome. Per me fu la scoperta di un mondo nuovo. Spesso sento che li chiamano “infelici”. Mai viste persone più felici di loro. Vivono radicati nel presente, senza ansietà per il futuro, senza inseguire come noi sogni effimeri e irraggiungibili. Sanno godere di una visita, di un gioco, di una festa, di un fiore, di un dolce, assaporano tutto, momento per momento. E ti ricolmano d’affetto disinteressato. Sr. Michela. Carattere forte come me, qualche volta erano scintille. Ma quando ci si vuol bene le divergenze non infrangono l’amicizia, anzi rinsaldano, e dopo ogni burrasca tornava il sole. Avrei potuto affiancarla nel lavoro di coordinamento di progetti di sviluppo e di inclusione di bambini e ragazzi con disagio e con disabilità in Paesi in via di sviluppo, in particolare in Africa. L’ho seguita a Roma, al Don Guanella”.

Ora ogni tanto suor Michela mi invita a celebrare per le sue “ragazze”. Ci sono le ragazze disabili, ma c’è anche un esercito di assistenti. A cominciare da suore di ben cinque istituti diversi che suor Michela ha chiamato a collaborare insieme: prodigio nel prodigio.

Questo pomeriggio celebrazione dei 100 anni dagli inizi delle casa. Chi meglio del superiore generale dei Guanelliani può spiegarmi il senso di quella casa?

“Una Casa dove le suore di San Luigi Guanella, le Figlie di Santa Maria della Provvidenza, servono con amore e dedizione oltre un centinaio di “ragazze” con disabilità. 100 anni di vita piena, gioiosa, rappacificata. 100 anni di promo­zione umana, sia fisica che spirituale. 100 anni di accoglienza, incontri, dialoghi, esercizi fisici di riabilitazione, lavori manuali artigianali nei laboratori. 100 anni di lodi, canti, preghiere e suppliche elevate al Signore, “il vero padrone di Casa”, il Dio di amore e di tenerezza. 100 anni di giochi, di feste, di uno stare insieme che ti fa star bene, di nuove entrate e di mesti addii a chi parte per il Cielo. 100 anni di forti relazioni tra le “ragazze”, con un laicato specializzato soprattutto in amore, con le suore che hanno fatto della loro vita un’offerta a Dio per queste sorelle, che vivono per loro. Con volontari e amici che sanno che in queste Case, dalle nostre “ragazze” si riceve tanto più che dare molto. Un’unica famiglia con un unico progetto: creare felicità e portare a pienezza di vita ogni componente partendo dal piccolo contributo personale che giace in lui e sviluppandolo, per le vie del cuore, fino a portarlo a una pienezza, a una realizzazione che per la sua persona è il massimo, dunque è felicità! D’altro canto questa è la nostra vocazione di Guanelliani; è il perché siamo al mondo, volu­ti da Dio per fare del bene ai nostri fratelli e sorelle”.

All’apericena (se non si mangia insieme che festa è?) il provinciale dei Guanelliani d’Europa, quando sa che sono un Oblato ricorda p. Giovanni Colombo (“Il cappello che ho in tesa è suo!”, gli dico), e mi dice di conoscere un certo p. Fabio Ciardi, per i suoi scritti (“Sono quello sotto il cappello!). Il vicario generale mi saluta e chiama le consigliere generali delle suore: a giugno dovrei guidare gli esercizi spirituale al consiglio generale maschile e femminile… Comincio a entrare in questa nuova famiglia.



martedì 28 marzo 2023

A Genova con Giovanni

 


La meteo aveva predetto una giornata di pioggia, ma oggi è il 25 marzo e il sole si alza lentamente su un cielo limpido. 25 marzo, il calendario si è sbizzarrito ad arricchirlo di eventi, ad iniziare dal giorno della creazione. La liturgia ce lo dona come giorno dell’annunciazione a Maria e giorno dell’incarnazione del Figlio di Dio – ambedue pronunciano il loro “sì”. È il giorno nel quale avverrà la fine del mondo. A buon ragione il calendario fiorentino e pisano lo fissavano come primo giorno dell’anno.

Memore di tanta storia, non potendo andare all’Annunziata di Firenze, scendo alla Nunziata di Genova, una chiesa monumentale, piena di luce, tutta marmi. Faccio un po’ di difficoltà a individuare l’altare dell’Annunciazione, ma finalmente eccolo, in una coreografia un po’ insolita, con una schiera d’angeli che scortano Gabriele. La mia giornata non poteva iniziare se non con la preghiera a Maria, la piena di grazia.

Sono solo nell’immensa basilica. Fino a quando vedo arrivare papà mamma e tre bambine che accendono una candela ciascuna. Nel pomeriggio dovrò svolgere la mia conferenza sulla trasmissione della fede “di generazione in generazione”: è quella scena che si svolge davanti a me.

Mi incammino per via Prè, lavata dalla pioggia della notte. Le botteghe d’alimentari e di frutta adorano di cose buone, affiancate dalle macellerie e dai negozietti più impensati. Proseguo lungo il porto fino alla salita che porta alla Lanterna, luogo simbolo di Genova. Mi staccano il primo biglietto della giornata, costeggio le antiche mura, passeggio nel piccolo parco che circonda la torre, entro tra le possenti fortificazioni, e mi soffermo al museo, tornano indietro con gli anni, i secoli, i millenni, fino agli etruschi… Ora su per le scale, fino alla prima balconata. Ecco davanti, distesa, la città: l’insenatura, il porto con i container, i palazzi che si arrampicano sulle colline, e il mare, il mare che si apre all’infinito e spalanca l’anima. Scendo con rammarico, starei qui tutta la giornata.


In basso mi aspetta Federico con la moto. Metto il casco e via per la città. Fino alla terrazza dei Santolini, con una vista che non ha niente da invidiare a quella della Lanterna. E mi rivedo Giovanni che gioca lassù in alto, che si ritrova con tutta la famiglia ad ogni festa. Vedo anche i miei genitori salire con me su quella terrazza, che ha ormai gli orizzonti di Giovanni.

La famiglia si allarga, si allarga...









lunedì 27 marzo 2023

Autunno e primavera

 


Una vita che tramonta

Una vita che rinasce

domenica 26 marzo 2023

Mario Borzaga e Giovanni Santolini: testimoni della gioia

 


Nella cerimonia della nascita della “Associazione Amici di Padre Giovanni Santolini”, è stato uno dei cognati di p. Giovanni, Gian Filippo Spigno, a presentarne lo Statuto. Tra l’altro ha messo in luce il legame con la “Assiciazione Amici di Padre Mario Borzaga”. Fra l’altro ha detto:

Mi piace pensare che Padre Mario e Padre Giovanni, pur nell’unicità delle loro vite e delle loro vocazioni, presentino tratti comuni, che traggono di certo ispirazione dal carisma degli Oblati e di Sant’Eugenio de Mazenod.

Questi tratti comuni possono essere individuati nel loro approccio gioioso alla Fede e allo spirito missionario pur nelle difficoltà enormi che entrambi hanno dovuto affrontare, sia nella loro volontà di essere sempre a disposizione dell’Altro.

Giovanni scriveva a Padre Fabio Ciardi, nostro relatore di oggi nel 1996, pochi mesi prima della Sua partenza per il Cielo: “Dio non toglie i problemi, ma mi domanda di amarLo nei problemi, e a poco a poco mi accorgo che è proprio questo che mi fa andare avanti, e che mi dà serenità e pace interiore. Sento che il mio ruolo qui è quello di dare pace e serenità, di prendere su di me le tensioni e, anche a costo di sembrare sciocco, di far sì che non si vedano i problemi ma che si veda il positivo e che si vada avanti. Bisogna togliere a tutti i costi lo spirito di disfattismo, de “non va niente bene”, del “fare tutto male e non siete capaci a far niente...”. 

Padre Mario nel suo Diario di un Uomo Felice nel 1956 (quarant’anni esatti prima di Giovanni) scriveva: “Ho capito la mia vocazione: essere un uomo felice pur nello sforzo di identificarmi col Cristo Crocifisso. Quanto resta ancora di sofferenza o Signore? Tu solo lo sai e per me “fiat voluntas Tua” in qualunque istante della mia vita. Se voglio essere come l’Eucarestia un buon Pane per essere mangiato dai fratelli, loro divino nutrimento, devo per forza prima passare attraverso la morte di croce. Prima il sacrificio poi la gioia di distribuirmi ai fratelli di tutto il mondo; se mi distribuisco senza passare prima a sublimarmi nel Sacrificio, do ai fratelli affamati di Dio me stesso, un cencio d’uomo, un residuo d’inferno; se accetto la mia morte in unione con quella di Gesù è proprio Gesù che io riesco a dare con le mie stesse mani ai fratelli. Non è pertanto una rinuncia a me stesso che devo fare, ma il potenziamento di tutto quello che in me può soffrire, essere immolato, sacrificato in favore delle anime che Gesù mi ha dato da amare.”

Quanta similitudine nel loro modo di pensare, di parlare e di agire! Ecco in questo parallelo fra queste due figure credo ci sia molto del mistero missionario e della gioia che il vero Missionario ha nel portare ai fratelli la parola di Speranza e di Fede che il Vangelo ci offre.

Ricordiamo che ogni volta che ciascuno di noi appare fiacco, stanco, arrabbiato, disfattista si allontana da sorriso di Dio e dalla voglia di felicità che questi due Padri Missionari esprimevano con le loro parole e con le loro opere.

Lo sperimentiamo noi nelle nostre famiglie: quando siamo arrabbiati e negativi, la negatività ci perseguita, se ci apriamo al sorriso, come ha detto uno dei miei figli pochi giorni fa, le cose belle capitano senza che Tu te lo aspetti.

Questo perché, come diceva San Giovanni Bosco il Demonio ha paura della gente allegra ed il Signore ama che quello che si fa per Lui si faccia con allegria.

E anche Sant’Agostino diceva che La Gioia facilita tutte le virtù, perché è un atto di fiducia in Dio e tiene il demonio a distanza. Chi mantiene lo sguardo dell’anima rivolto alla Gioia di Gesù Risorto e si mantiene fedele ai Suoi insegnamenti, vince i propri difetti, permette a Gesù di guarire le ferite del suo cuore e vede entrare miracoli nella propria vita.”

L’unica condizione per camminare verso la santità che San Domenico Savio chiedeva ai suoi coetanei era: mantenersi nella Gioia. Fidarsi di Dio in ogni momento e circostanza: perché Gesù ci ha promesso che è sempre con noi e Lui sa volgere ogni situazione a nostro favore, specialmente quelle che non comprendiamo, che ci feriscono o che temiamo di più.

Questa grande lezione è stata ben compresa da Giovanni che ci ha sempre ispirato ad accostarci alla vita anche nelle sue difficoltà con fiducia e gioia ed è essenzialmente questo il messaggio più bello e profondo che Giovanni ci ha lasciato come eredità.

sabato 25 marzo 2023

Non c'è amore vero senza pianto


In questi Vangeli di Quaresima Gesù si è mostrato acqua viva e luce del mondo, adesso la vita stessa. In Dio trova vita ogni creatura. Egli è infatti un Dio amante della vita, la vita della nostra vita, non vuoi la morte del peccatore, ma che si converta e viva. Per questo quando una vita muore Gesù piange, anche se sa che è per una vita più vera. Sa bene sa di essere lui stesso il chicco di grano che deve morire per portare frutto e moltiplicare la vita. Questo non toglie il dolore del distacco e della morte, anche di una foglia che cade, di un riccio schiacciato al margine della strada.

Gesù, davanti alla tomba di Lazzaro, piange di un pianto convulso, con singhiozzi che gli schiantano il petto. Piange come piangiamo noi, piange perché ama d’amore vero, sincero, con il cuore. Un anticipo di quel turbamento e di quell’angoscia che proverà nell’ordo degli ulivi davanti alla propria morte. Non c’è amore senza pianto.

Come si mostra vero uomo! E quanto è vero Dio! Ama veramente! Piange l’amico Lazzaro perché è un amico: lo ama veramente.

Nell’ultima cena Gesù ci ha detto che non ci chiamerà più servi ma amici. Mi considera dunque amico. Piangerà anche su di me, alla mia morte? È il segno che gli sono caro. Un Dio che piange per me! Dio è Amore, lo sappiamo, ma come avremmo potuto immaginare che fosse amore al punto da commuoversi e da patire per il nostro patire e il nostro morire? Non so se altri mi piangeranno. So che Gesù mi piangerà come nessun altro, perché come nessun altro mi ha amato: «Guarda come lo amava!».

Anche in questo Gesù è modello: “Amatevi come io vi ho amato”. Amare come lui, fino a soffrire per l’altro. È il sigillo dell’amore.

Tu sei la Risurrezione e la Vita.
Tu muori per noi e risorgi per noi.
In te moriamo, in te risorgiamo.
Un dono pagato a caro prezzo,
t’è costato lacrime e sangue.
Te ne saremo grati in eterno.
Tocca il nostro cuore,
che sappia amare con il tuo cuore,
fino a gioire con chi gioisce,
piangere con chi piange.
E l’amore sia sincero e vero,
umano e divino.

 

giovedì 23 marzo 2023

Giovanni Santolini: come Maria

L’Associazione degli Amici di Padre Giovanni Santolini” nasce il 25 marzo, il giorno dell’annunciazione a Maria. Giovanni ci aiuta a vivere in dimensione mariana la missione e il nostro impegno a diffondere l’idea missionaria.

Due sole frasi dai suoi scritti, la prima dagli appunti del ritiro in preparazione ai voti perpetui, la seconda da una lettera scritta alla vigilia. Sono dunque legate a un cammino tipicamente religioso e sacerdotale, ma sono valide per ognuno di noi, a qualunque vocazione apparteniamo.

La prima: «“E il discepolo la prese con sé nella sua casa”. (…) Anche io voglio accoglierti, o Maria, in casa mia. Fa Tu da padrona, da Regina della casa, fammi da madre, da maestra nel soffrire e nel riconoscere Tuo Figlio. Vieni, Maria, e in me offri ancora al mondo il Tuo figlio Gesù».

La seconda: «In questi anni di formazione ho intuito che il mio Sacerdozio deve essere fondato su Maria, la Madre, la Desolata. Su questa base, con questo sfondo, posso accogliere e trasmettere Dio ad ogni uomo. (…) Maria, Colei che dona Gesù al Mondo e Gesù Sacerdote, Co­lui che unisce l’uomo a Dio. Questo è il programma del mio Sacerdozio».

Questo anche il nostro porgramma


mercoledì 22 marzo 2023

Giovanni Santolini: L'identità oblata

Un frutto maturo della sua comprensione della missione lo troviamo espresso in una conferenza tenuta nel 1989 a Ottawa, in Canada, in occasione di un convegno dedicato a “La missione oblata attraverso la comunità apostolica”. Alla conclusione della sua presentazione scrive: «Siamo uniti nel nome di Gesù Cristo; quindi uniti nella carità, nel Vangelo, nell’amore reciproco. Di conseguenza, uniti per nessun altro motivo, per nessun’altra ragione che Lui. È Lui la sola ragione della nostra unità, Lui, Gesù, il solo motivo del nostro essere comunitario, e non l’apostolato, il ministero, la missione stessa, o non importa quale altre azioni possiamo fare, tutte conseguenze… La comunità è dunque missionaria perché è il segno della presenza di Gesù: “Voi ne sarete testimoni” (Lc 24, 38). Essere testimoni della presenza di Cristo è continuare la sua missione. È tutto qui… Bisogna supporre lo sforzo personale di una conversione continua che conduce alla perfezione: una perfezione acquisita non in senso individualista, ma dell’amore reciproco, che ci consente di giungere fino in fondo, grazie alla presenza di Gesù che dobbiamo alimentare. È Lui il perfetto ed è in Lui che dobbiamo trovare la perfezione e dunque l’unità della nostra vita e delle nostre vite».

Forse una delle sintesi più belle, espressa in maniera narrativa, è forse quella annotata in un breve scritto senza data, intitolato: Meditazione. L’identità oblata. Entra idealmente in dialogo con il Fondatore degli Oblati, sant’Eugenio de Mazenod, ponendogli alcune domande. Tra l’altro gli chiede: “Chi è l’uomo apostolico?”. E fa rispondere a sant’Eugenio: «Qualcuno che si lascia toccare il cuore di fronte alla situazione della Chiesa e del mondo e ascolta il grido dei poveri che chiedono aiuto e salvezza. L’uomo apostolico è colui che è stato afferrato da Cristo e si sente impegnato nella sua missione, responsabile con Cristo della salvezza degli uomini. È affare suo, è responsabilità sua e come san Paolo può dire: “Guai a me se non evangelizzo” (1 Cor 9,16)».

In questo dialogo lo sguardo non si ferma al passato, ma si proietta sul momento che Giovanni sta vivendo, alla ricerca di un cammino da percorrere. «Se tu, padre de Mazenod, tornassi oggi nella Provincia dello Zaire, cosa ti aspetteresti da noi?». E di nuovo da voce a sant’Eugenio: «La mia risposta non è legata al passato o ad uno sguardo fuori dal nostro contesto attuale, ma alla consapevolezza di chi siamo e di cosa la Chiesa si aspetta da noi come uomini che vivono il carisma in questo nostro contesto storico». L’ottica per la lettura dell’oggi è data dall’identità dell’uomo apostolico, come proposto dal Fondatore: «un uomo che si lascia toccare di fronte alla situazione della Chiesa e del mondo e ascolta il grido dei poveri che chiedono aiuto e salvezza; che è stato preso da Cristo e che si sente impegnato nella sua missione, responsabile, con Cristo, in qualche modo, della salvezza degli uomini. È affare suo, è sua responsabilità e come san Paolo può dire: “Guai a me se non evangelizzo” (1 Cor 9,16)».

Il progetto che Giovanni ha davanti a sé è chiaro e fa dire al suo Fondatore che gli Oblati sono «uomini che hanno una vera consistenza umana, che camminano le orme degli Apostoli seguendo Cristo, che tendono alla santità, in una vocazione totalitaria, senza mezze misure, che lavorano seriamente per costruire la santità personale e comunitaria, nella libertà interiore da denaro, famiglia, potere, proprie idee; nella libertà esteriore dalle strutture, dal giudizio sull’ambiente, pronte a lasciare tutto per la missione, per rispondere alle urgenze della Chiesa. Per loro è importante la comunità, lo spirito di corpo. L’Oblato non è mai solo, lavora sempre in nome del corpo, della congregazione. La comunità è il luogo di santificazione assieme gli altri. Così gli Oblati sono uomini di desiderio, di audacia, per portare a buon fine le imprese».

Il dialogo con sant’Eugenio continua: «Come ci vede in questo nostro posto nella Chiesa?». La risposta, ancora una volta, palesa la visione di Giovanni: «Vi vedo come una “truppa d’élite” al servizio della Chiesa, capaci di ascoltare gli appelli dei poveri oggi».

Poi l’appello rivolto ai giovani che Giovanni ha davanti: «Siamo in grado di ascoltare questo grido della Chiesa abbandonata e di trovare una risposta adeguata a questo grido? Qual è questo grido? Non chiudete le orecchie a queste grida perché altrimenti ci chiudiamo alla nostra identità oblata, non potremo più riconoscerci. Soltanto rispondendo a questi appelli, potremo essere autentici testimoni di Gesù Cristo tra i poveri, non solo con le parole e con i fatti, con l’autenticità religiosa del nostro essere: annunciare ciò che stiamo vivendo. “Non possiamo non proclamare ciò che abbiamo visto e udito” (At 4,20)».

Questa pagina dà un’idea non soltanto della sua idea missionaria, ma di come la condivideva con i giovani in formazione. E continua ad essere un appello a lasciarci coinvolgere e a prendere in mano la sua eredità, così che la missione continui, “di generazione in generazione”.

 

Giovanni Santolini: L'idea della missione

Alla vigilia dell’ordinazione sacerdotale, p. Giovanni Santolini lascia il seminario di Genova per entrare nella famiglia dei Missionari Oblati. Questi non hanno fretta di ordinarlo. Dovrà continuare la preparazione per ben cinque ulteriori anni.

«Valeva la pena – scrive ai familiari – aspettare cinque anni prima di diventare prete, perché adesso il mio sacerdozio cambia completamente: io non ho scelto il sacerdozio, ho scelto Gesù. E così cambia anche la mia missione: può darsi che io alla fine di quest’anno parta per le missioni, ma il mio andare sarà un continuare a seguire Gesù, non un mio pallino o desiderio. Tutto prende allora un colore totalmente diverso. Tutto è bellissimo perché Dio che è Amore a poco a poco mi rende come Lui».

Potremmo fermarci qui, perché in queste poche righe c’è già tanto dell’idea di missione che si è venuta formando nel primo periodo nel quale ha vissuto con gli Oblati a Marino e a Frascati.

Al centro c’è Gesù. La missione è continuare a seguire Gesù, fino ad essere trasformato in Gesù, fino a diventare amore come Dio è Amore. Gesù è l’inviato, il missionario del Padre. Giovanni sarà missionario – compirà la missione di Gesù – nella misura in cui sarà Gesù. Sembra una formula matematica. L’idea folkloristica ed epica delle “missioni” lascia il posto alla autentica “missione”: continuare l’opera di Gesù essendo un altro Gesù.

Alla vigilia dell’ordinazione sacerdotale – siamo nel 1982 – Giovanni, 29 anni, scrive al Papa: «Prima di compiere questo passo, vorrei rinnovare con Lei la mia fedeltà alla Chiesa. (…) Ho già offerto, con l’Oblazione perpetua, e voglio conti­nuare ad offrire la mia vita al Padre Celeste perché si realizzi il Comandamento dell’Amore scambievole tra tutti gli uomini. Voglio servire solo Dio e i fratelli in Lui e per Lui».

Appare qui un altro aspetto ancora della missione, in continuità con quando scritto ai familiari. A loro diceva: “Dio che è Amore a poco a poco mi rende come Lui”. Adesso, al Papa, dice che la sua missione sarà “offrire la vita perché si realizzi il Comandamento dell’Amore scambievole tra tutti gli uomini”.

La missione è portare in terra l’amore di Dio, insegnare a vivere la reciprocità dell’amore secondo il “comandamento nuovo”, secondo il modello della comunione delle Tre divine Persone. La missione è la creazione della famiglia dei figli di Dio, di un mondo nuovo.

In questa lettera al Papa il richiamo all’oblazione non è casuale. Per p. Giovanni l’idea di oblazione e di missione sono strettamente legate, come scrive ancora al superiore generale per chiedergli di essere inviato in missione all’estero: «Voglio aprire a Lei il mio cuore per farle contem­plare quello che Dio ha costruito in me durante questi anni. Sono giunto tra gli Oblati quando ero prossimo alla consa­crazione sacerdotale, animato dal desiderio di partire per le Missioni canadesi. Dopo una accurata analisi mi sono accorto che le motivazioni di questa scelta erano fondate sul desiderio di consacrarmi totalmente a Dio per essere santo. Questo ane­lito verso la perfezione ha trovato la sua giusta collocazione nella vita religiosa: con i voti e con l’Oblazione perpetua ho percepito di realizzare il disegno di Dio su di me».

L’idea di missione si salda ormai con quella della santità.

Il cammino formativo ha dato un’impronta particolare alla sua vocazione missionaria: «Nella mia consacrazione religiosa e missionaria ciò che mi costituisce Oblato è l’adesione alla chiamata di Gesù e lo sforzo di conformarmi alla sua missione di Evangelizzatore dei poveri, per cui la mia visione missionaria sul mondo e sulla Chiesa è passata da una dimensione esterna ad una visione mol­to più interiorizzata: è l’appello e l’invio del Signore ed il mio conformarmi ad esso che mi costituisce evangelizzatore».

Proprio negli anni di formazione, giunge a elaborare in maniera oggettiva questo suo programma missionario nel volume Evangelizzazione e missione. Teologia e prassi missionaria in Eugenio de Mazenod, pubblicato nel 1984. Vi leggiamo: «L’evangelizzazione è un’esperienza con il Cristo, il primo evangelizzatore. I missionari cooperano con Lui, annunciano come Lui la Buona Novella e come Lui vogliono donare la loro vita per la redenzione del genere umano. Da qui nasce l’evangelizzazione globale, perché la persona viene coinvolta nella sequela di Cristo dalla quale scaturisce un impegno di santità. Non si può essere apostoli, infatti, se non si vuole seriamente ripercorrere le piste tracciate da Cristo e dagli Apostoli; non si ha vera missione senza uno sforzo di integrazione totale alla missione di Cristo».

In questo suo studio appare infine un ulteriore aspetto della missione, quello della comunità, maturato dall’esperienza vissuta negli anni della formazione con gli Oblati: «Un elemento fondamentale, non solamente come modalità di azione, ma come specifica vocazione oblata, è la comunità evangelizzatrice. L’evangelizzazione comporta molteplici aspetti che trovano la loro unita nell’unico corpo apostolico che forma la Congregazione; unità vissuta all’interno della comunità che diventa luogo di comunione e di missione: “Da questo tutti riconosceranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni verso gli altri” (Gv 13,35)».

 

martedì 21 marzo 2023

il 25 marzo a Genova

La fede si è trasmessa di generazione in generazione per 200 anni. Non con i libri, ma con la vita, e passa di padre e madre nei figli… Se oggi noi crediamo è perché la fede ci è stata trasmessa da chi l’ha ricevuta a sua volta, l’ha vissuta, l’ha testimoniata.

Passa anche attraverso il racconto dei testimoni della fede, i santi, i grandi che hanno vissuto l’eredità ricevuta e hanno saputo farla fruttare. Il loro esempio e il loro insegnamento ci aiutano a capire come vivere il patrimonio della fede, che solo dà senso pieno alla nostra vita.

P. Giovanni Santolini era consapevole che la sua vita costituiva come l’ultimo anello di una lunga ininterrotta catena di testimoni e gli era nato il desiderio di trasmettere a propria volta l’insegnamento di Gesù… agli Indiani del Canada!, come scrive verso al termine della sua prima formazione, il 22 maggio 1981. Quella sera ha l’impressione di ascoltare il grido della Chiesa che gli dice: «senza di te, il lavoro che generazioni di Oblati hanno fatto non giungerà mai a pienezza, manca solo un ultimo anello, quello che ha la capacità e la forza di dare la Chiesa in mano agli Indiani. Questo anello, questo seme che vuole andare a marcire per portare frutto, questa sera nell’Eucaristia ho sentito che potevo essere io».

Chi prende in mano l’eredità di p. Giovanni Santolini? Che porta avanti il suo ideale missionario? Saremo capaci di trasmettere a nostra volta, come p. Giovanni e con p. Giovanni, quanto abbiamo ricevuto per costruire la Chiesa e contribuire alla continuazione del cristianesimo nella storia?

Il 25 marzo a Genova nasce l’Associazione Amici di Padre Giovanni Santolini. con questo questo obiettivo: fare in modo che la fiaccola dell’amore, la luce della Chiesa, la passione missionaria che ha animato p. Giovanni, passi di mano in mano, rimanga accenda e infiammi nuovi cuori. Di generazione in generazione!

 

lunedì 20 marzo 2023

Giuseppe, non temere

Letteratura e film amano soffermarsi sul dramma psicologico vissuto da Giuseppe una volta scoperto che la sposa è in attesa di un figlio che non è suo. Il Vangelo è sobrio ed essenziale, senza indulgere sui sentimenti: «Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto» (1, 19). 

Vorremmo entrare nel suo cuore, conoscere i motivi per cui decise di lasciarla senza dare scandalo piuttosto che portarla in processo. Forse si era accorto di trovarsi davanti a una realtà più grande di lui, dalla quale voleva ritrarsi in silenzio, lasciando libera la donna e il suo bambino avvolti nel mistero. Agendo così si comporta da uomo “giusto”, non va contro la legge? È giusto perché si rimette alla volontà di Dio, ben al di là della sua comprensione. Che sia Dio a decidere, perché lui sa. E Dio interviene.

Quando parliamo dell’annunziazione il pensiero va subito a Maria, secondo il racconto di Luca, e quale artista non si è lasciato ispirare dall’annunciazione. Per Matteo l’annunciazione è rivolta a Giuseppe. È lui il responsabile della nuova famiglia che sta nascendo. Maria rimane nell’ombra. L’angelo appare a lui, in sogno, segno dell’irruzione del divino nella sua vita: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa». Dunque Giuseppe è nel timore. Di cosa ha paura? Di essere stato tradito, di vedere Maria lapidata? O non si tratta forse del “timore di Dio”, quello che nasce davanti all’opera di Dio, incomprensibile perché al di là delle nostre categorie mentali? I suoi pensieri non sono i nostri pensieri, le sue vie non sono le nostre vie. Giuseppe sa che è davanti a qualcosa che lo supera infinitamente, a un mistero di cui Dio soltanto conosce la portata e il valore.

L’angelo ora glielo rivela: «il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo». Ecco il mistero davanti al quale Giuseppe si arrende. Gli occorrerà forse tutta la vita per comprenderlo, per adesso sa solo che Dio è all’opera e questo gli basta, si fida. «Ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati» (1, 20-21). Se in Luca l’angelo indica a Maria il nome del figlio nascituro, in Matteo è compito di Giuseppe, in quanto padre, dare il nome al figlio e con esso la sua identità sociale.

All’uomo giusto, conoscitore della Legge, l’angelo mostra la “ragionevolezza” del mistero che sta accadendo sotto i suoi occhi: si stanno compiendo le Scritture, la parola del profeta Isaia: «Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele,
che significa Dio con noi» (1, 22-23). Al di là del significato che queste parole potevano avere quando furono pronunciate secoli prima, adesso si adempiano in pienezza, in una maniera forse mai immaginata: il figlio di Maria nasce davvero da una madre vergine.

Giuseppe si trova davanti a una realtà che lo sorpassa infinitamente. Ha bisogno di un angelo che gli dica: “Non temere”. Anche a Maria l’angelo dirà la stessa cosa, perché anche lei si troverà davanti allo stesso ineffabile mistero.

“Non temere”. La prima volta Dio lo dice ad Abramo (Gn 15, 1). Lo ripete a Mosé e al suo popolo: “Non temere e non ti abbattere” (Dt 1, 21). “Non temere e non spaventarti”, dirà più volte a Giosuè (Gs 1, 9), a Salomone (1 Cr 22, 13), ad Acaz (Is 7, 4), al “vermiciattolo di Israele” (Is 41, 12), lo ridice al popolo per bocca di Geremia (30, 10), a Daniele (10, 12), a Gerusalemme per bocca di Sofonia (3, 16), a Zaccaria (Lc 1, 13). Gesù lo dirà a Simone (Lc 5, 36), a Giairo (Lc 8, 50), al “piccolo gregge” dei suoi apostoli (Lc 12, 32), a Paolo (At 7, 24), al veggente dell’Apocalisse (Ap 1, 17). Non temere! Un messaggio pieno di speranza che Dio rivolge a Giuseppe come ad ogni uomo, al suo popolo e all’umanità intera. Ci conosce bene questo Dio che ci ha fatti, conosce le nostre fragilità, le nostre paure, le nostre debolezze. Non temere! Lo ripete una ottantina di volte nella Bibbia, colorandolo con “non ti perdere d’animo”, “sii forte e coraggioso”, “non ti abbattere”, “sta tranquillo”, “non lasciarti cadere”.

Giuseppe è tutti noi ogni volta che ci troviamo in una situazione inattesa, che supera le nostre forze. Sono tanti gli eventi più grandi di noi che capitano a noi o attorno a noi, davanti ai quali non sappiamo cosa fare, ci sentiamo persi. Anche a noi l’assicurazione da parte di un angelo: “Non temere!”. Non temere perché la storia, quella piccola e quella grande, l’ha in mano Dio, siamo in mani sicure. Può accadere in tutto, ma non siamo in balia degli eventi, non siamo mai soli ad affrontare le prove, a rispondere alle richieste di Dio, anche quando ci sembrano troppo grandi e noi ci sentiamo troppo piccoli: siamo nelle sue mani, le risolve lui le cose, ci pensa lui a fare tutto.

«Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l'angelo del Signore e prese con sé la sua sposa» (1, 24). L’uomo giusto è l’uomo obbediente, che si fida di Dio anche quando tutto sembra assurdo. Giuseppe crede e fa.

La sua è un’azione decisa e concreta: “Prese con sé”. Maria entra a far parte nella sua vita, va ad abitare nella sua casa, e con lei il bambino. Il mistero rimarrà comunque: «senza che egli la conoscesse, ella diede alla luce un figlio ed egli lo chiamò Gesù» (1, 25). Lungo tutta questa pagina evangelica si afferma e si riafferma che il bambino che nasce non è figlio di Giuseppe ma realmente figlio di Dio, nato per opera dello Spirito Santo. Anche il rapporto tra Giuseppe e Maria, che contraggono un vero matrimonio, che sono realmente marito e moglie e di amano come tali, è del tutto particolare: Giuseppe rispetta la verginità di Maria, come da sempre ci ha insegnato la Tradizione. “Sempre vergine” la definisce il Concilio di Costantinopoli nel 553. Ella rimane per sempre la Vergine per eccellenza, sposa dello Spirito Santo.

Giuseppe rimane accanto alla moglie e al figlio che non è suo e che pure lo diventa giorno dopo giorno. “Non è costui il figlio del falegname?”, diranno con naturalezza gli abitanti di Nazaret che hanno sempre visto Giuseppe e Gesù l’uno accanto all’altro (13, 55). Un bambino come tutti gli altri, che imparerà il mestiere del padre e lo accompagnerà al lavoro, un bambino a cui Giuseppe ha dato un nome comune a quel tempo: Gesù. Ma è un nome unico, perché quel bambino è unico e il suo come è veramente quello che esso significa: Dio salva, «egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati» (1, 21). Gesù è l’Emmanuele, la presenza di “Dio tra noi”.

Anche noi, come Giuseppe, siamo chiamati a credere che Gesù viene dal cielo. Anche noi siamo chiamati ad accogliere Gesù come il “Dio tra noi” e a compiere in piena docilità il suo volere, anche se a volte può sembrare assurdo, o incomprensibile, o al di sopra delle nostre capacità. Facendo “come ci viene ordinato”, con la semplicità e la fede di Giuseppe, vedremo come lui, compiersi attorno a noi il miracolo di Dio che si rende presente e attualizza il suo progetto.

 

domenica 19 marzo 2023

La preghiera del Rosario

Ilaria Pedrini, un mito! Ha letto il libretto sul Rosario. È sua l’iniziativa di farlo pubblicare, e lo sta promuovendo! La sua esperienza è molto più bella del libro:

Appena ho visto il titolo un tuffo al cuore: eureka! Da tanto tempo ero scontenta del mio modo di recitare il Rosario: una pratica bella e già presente nella mia vita fin da bambina, che tuttavia ultimamente mi lasciava scontenta senza che riuscissi a capirne il perché.

Padre Fabio sembrava rispondere alla mia domanda, benché non ne avessi ancora mai fatto cenno ad alcuno. “Basta fermarsi alla prima metà dell'Ave Maria, alla parola Gesù". Così sembrava dirmi, suggerendo di non continuare con la seconda parte (che mi rattrista) ma di “restare in Gesù”, concentrata in una delle definizioni di Lui contenute nella Scrittura.

Padre Fabio nel libro ne suggerisce una per ogni Ave Maria dei 4 misteri del Rosario, ossia 200, anzi, 250, perché egli ha aggiunto un’altra meravigliosa invenzione: i Misteri della Resurrezione. E tuttavia non limita le possibili definizioni a quelle 250 ma osserva che, una volta appreso “il modo nuovo”, la lode a Gesù diventa spontanea e creativa.

Il Rosario, preghiera mariana, comincia con un saluto a Lei e poi … via, per la tangente, verso di Lui. Ogni Ave Maria così è nuova, è uno sguardo nuovo su Gesù. L'uovo di Colombo? Non so che dire. So che ho provato a seguire questo “modo nuovo" e – per me – è ormai questa la normalità del Rosario. Ha cambiato in meglio la mia preghiera, molto in meglio.

Entusiasta, ho cominciato a parlarne con gli amici e ho trovato curiosità, interesse e stupore. Soprattutto tra gli amici di altre fedi e di altre confessioni cristiane.

Anche gli amici musulmani infatti sgranano il loro “misbaha”, il filo di 99 “perle di preghiera” che li aiuta a lodare Allah con la recita dei suoi 99 nomi.

Anche gli amici buddisti o induisti sgranano il loro "mala" che li accompagna nella recita dei mantra, che li eleva e li rilassa, portando nell’animo la pace.

E gli ebrei capiscono una simile preghiera contemplativa perché è della tradizione rabbinica l’invito che Luca mette anche sulle labbra di Gesù, ossia l’invito a “pregare sempre” e a “pregare senza stancarsi” (Lc 18,1 e 21,36).

Senza dire che il Rosario, pregato così, può avere una grande valenza ecumenica: è del “pellegrino russo” della tradizione ortodossa il sogno di non smettere mai di invocare il Signore, mentre si è occupati - laicamente - nelle faccende di ogni giorno! Ed è delle sensibilità della riforma un rapporto con Maria che non la separa dall’unicità del Figlio.

Auguro a tanti queste scoperte e chissà quali altre ancora!

Un grazie enorme a Padre Fabio.

Per mezzo suo il Carisma degli Oblati di Maria Immacolata, donato per primo a Eugene de Mazenod molti anni fa, oggi ci procura un meraviglioso regalo: un Rosario che è tutto e solo “parola di Dio”, un rapporto con Maria che ci proietta nella speranza dell’immedesimazione con Lei, Immacolata.

Per l’ordinazione, 8 euro:

https://editrice.effata.it/landing_page/pregare-il-rosario-in-modo-nuovo-preordina/

sabato 18 marzo 2023

Dal buio alla luce


Davanti a una difficoltà, a una prova, a una disgrazia, viene spontaneo chiedere a Dio: “Perché mi tratti così, cosa ho fatto di male?”. Non siamo diversi dai discepoli di Gesù che, davanti a un cieco, gli domandano di chi è la colpa, sua, dei suoi genitori... La cecità è e rimane oggettivamente una situazione negativa, ma Gesù da tutto sa ricavare il positivo: “È cieco perché in lui siano manifestate le opere di Dio”.

Quali opere? Il miracolo della vista? Sì, ma come segno di un miracolo ben più grande: vedere e riconoscere Gesù. Tanti altri hanno il dono della vista, ma rimangono ciechi alla visione vera.

L’uomo cieco dalla nascita invece ha sofferto, ha bramato la luce. Da solo non può uscire dal suo buio. A differenza di quanto accade in altri episodi del vangelo egli non grida, non chiede un miracolo. È Gesù che gli va incontro, tu che lo vede (il cieco… non lo vede!), che prendi l’iniziativa: si fa la sua luce. Per quell’uomo è l’inizio di un cammino graduale nel recupero della vista, come quello del giorno che, dal tenue chiarore dell’albeggiare, giunge allo splendore folgorante del meriggio. Lo stesso per il cammino del riconoscimento di Gesù. Chi è Gesù agli occhi del ciel che ha riacquistato la vista? Prima pensa sia soltanto un uomo, un semplice uomo chiamato Gesù, poi un profeta, uno che viene da Dio, infine il Signore, davanti al quale cadere in ginocchio: “Credo, Signore”. È questo il miracolo vero: riconoscere Gesù, cadere in ginocchio, adorare. Lo stesso miracolo che Gesù opererà più tardi con i due pellegrini sulla strada di Emmaus: apre loro gli occhi e lentamente lo riconobbero.

In filigrana è disegnato il cammino della Chiesa, di ogni cristiano. Sappiamo avvertire la presenza di Dio quando ci piomba addosso l’avversità? La riconosceremo come la via necessaria perché si manifesti appieno l’opera di Dio? Giobbe avrebbe mai visto il volto di Dio se non fosse passato attraverso le mille tribolazioni? “Fino ad ora ti conoscevo per sentito dire – confessò al termine della sua esperienza – ora i miei occhi ti vedono”.

Gesù, luce del mondo,
vienici incontro sul nostro cammino,
dissipa le tenebra
del nostro peccato,
aprici gli occhi
e ti riconosceremo,
illumina i cuori e ti seguiremo,
mostraci il tuo splendore
e ti ameremo adoranti
unico Signore.
Trasformaci in luce
perché possiamo renderti testimonianza
ed essere la tua luce.

 

venerdì 17 marzo 2023

Preghiera in famiglia

La sala di Castelgandolfo riprende a riempirsi, dopo gli anni difficile della pandemia. Anche oggi davanti a me 700 persone per l’incontro delle famiglie, con i bambini. Uno spettacolo straordinario.

Mi hanno chiesto di parlare della preghiera in famiglia.

Ho parlato delle diverse stagioni della preghiera, lungo tutto l’arco della vita e poi della preghiera di tutta la famiglia insieme. Ho certamente parlato del rosario, della preghiera prima dei pasti, dei pellegrinaggi che si possono fare insieme, delle visite veloci in chiesa mentre siamo a passeggio, della valorizzazione delle feste, anniversari, malattie, morti…

Ma soprattutto ho parlato del valore di Gesù in mezzo a noi: è lui ha nostra preghiera! Ho letto brevi testi dei primi scrittori cristiani, cominciando da una lettera di Tertulliano (155-230) alla moglie: «Chi sono i due o i tre riuniti in nome di Cristo, in mezzo ai quali sta il Signore? Non sono forse l’uomo, la donna e il figlio dal momento che l’uomo e la donna sono uniti da Dio?».

Quindi la sua descrizione della vita di coppia: «Insieme pregano, insieme s’inginocchiano ed insieme digiunano; l’uno insegna all’altro, l’uno esorta l’altro, l’uno sostiene l’altro. Sono uguali nella chiesa di Dio, uguali al banchetto di Dio, uguali nelle angustie, nelle persecuzioni e nelle consolazioni. Nessuno ha segreti per l’altro, nessuno evita l’altro, nessuno è per l’altro di peso. Il segno di croce non si fa di nascosto; la lode non è timorosa, la benedizione non è silenziosa… Cristo vede questo e nell’ascoltare gioisce. A loro manda la sua pace».

Bello anche l’insegnamento di Giovanni Crisostomo: «La casa diventi una chiesa. Vi riposi la grazia dello Spirito Santo e ogni pace e concordia difenda gli abitanti». 

«Gli sposi facciano qualsiasi cosa come se avessero una sola anima e fossero un solo corpo. Questo è il vero matrimonio, quando così grande è la concordia tra di loro, quando così sono concatenati tra di loro dal vincolo della carità».

Infine ho celebrato felicemente la messa, con una quarantina di “chierichetti” attorno a me…