martedì 30 settembre 2014

Passeggiando per Roma: il barbone santo



Basta uscire dai soliti circuiti per imbattersi in una Roma sempre nuova. Così ho fatto, ho lasciato via Nazionale e mi sono inoltrato del rione Monti, l’antica Suburra, il quartiere popolare dell’antica Roma. È proprio un’altra città, con un fascino discreto, erede del destino popolare che gli è rimasto attaccato ai vicoli e alle case. Via e piazza degli zingari ricordano ancora quei tempi lontani. E dove altro se non qui poteva essere la tomba di un santo zingaresco come Benedetto Giuseppe Labre? Non lo chiamavano lo “zingaro di Cristo”, il “vagabondo di Dio”?
Inutilmente tentò di farsi trappista, su rifiutato dai cistercensi di Montagne, dai certosini di Neuville, dai cistercense di Sept-Fons. Decise così di farsi pellegrino: il suo monastero sarebbe stato la strada, e più precisamente le strade di Roma. Nel sacco di povero pellegrino portava tutti i suoi tesori: il Nuovo Testamento, l’Imitazione di Cristo e il breviario; sul petto portava un crocifisso, al collo una corona e tra le mani un rosario. Di notte riposava tra le rovine del Colosseo e le sue giornate le passava nella preghiera contemplativa e nei pellegrinaggi ai vari santuari.
Morì proprio in questo quartiere, accanto alla chiesa di S. Maria dei Monti, dopo essersi accasciato sui gradini dell’entrata ed essere ricoverato nel retrobottega del macellaio.
Si recava spessissimo in questa chiesa per la recita delle Litanie davanti all’immagine miracolosa della Vergine. Iniziava al mattino presto, inginocchiato presso l’altare maggiore, “con gli occhi fissamente a Maria rivolti, parea che si liquefacesse in santo amore, né potea trattenere gli affetti interni senza esprimere il suo amore. […] Chiunque miravalo perovava compunzione, e tenerezza. Molti portavansi a bella posta in detta chiesa, e fatta una breve adorazione al Divin Sacramento, si mettevan di proposito ad osservarlo, destandosi ne’ loro cuori affetti di compunzione e devozione nel mirarlo così innamorato e devoto di Maria Santissima”.
Quando morì, quel mercoledì santo del 1783. I bambini di Monti iniziarono ad andare per il quartiere gridando: “E’ morto il Santo! E’ morto il Santo”. E “Tosto un immensa moltitudine di popolo di ogni età, di ogni ordine assediò la camera dove giaceva il corpo di quell’uomo miserissimo, ed ognuno faceva a gara d’avere un brandello delle lacere e luride vesti da lui usate”. La sua fama durò così a lungo che un secolo dopo, nel 1881, Leone XIII dovette canonizzarlo.
Ora se ne sta pulito e candito, disteso nella sua statua bianca, nella sua chiesa, accanto alla Madonna, lui che era stato così sporco e malmesso da diventare il simbolo del barbone, santo!
Chissà che bella “stanza segreta” doveva avere in cuore. Di lui J.R. Maritani ha scritto: “Fu cercatore di Dio sulle strade della terra. La solitudine fu la sua vocazione, foss’egli smarrito fra sentieri selvaggi o fra il popolo di Roma. La contemplazione dovette essere tutta la sua vita nel tempo che precedette la beatitudine eterna”.
Ne ha fatti di santi Roma! e i santi hanno fatto Roma santa.


lunedì 29 settembre 2014

La stanza segreta / 5



Gesù se ne va (cf. Mt 26, 24), lo sposo è portato via di casa (cf. Mt 9, 15). La fede lo crede ancora presente pur senza vederlo e senza sentirlo, la speranza lo attende contro ogni evidenza, l’amore lo brama e lo desidera con la forza della passione. La ricerca riprende con tenacia, con la stessa determinazione della sposa del Cantico: «Mi alzerò e farò il giro della città; per le strade e per le piazze; voglio cercare l'amato del mio cuore». L’esito? «L’ho cercato, ma non l’ho trovato». La ricerca continua ancora, domandando a tutti quanti incontra per strada, fino a quando «trovai l'amato del mio cuore. Lo strinsi fortemente e non lo lascerò». Lo riporta a “casa”, nella sua “stanza” (3, 1-4). Tutto sembra concluso con esito felice e invece più avanti la storia si ripete con nuove perdite e ricerche e ritrovamenti… «Ho aperto allora al mio diletto, ma il mio diletto già se n'era andato, era scomparso. Io venni meno, per la sua scomparsa. L'ho cercato, ma non l'ho trovato, l'ho chiamato, ma non m'ha risposto» (5, 6). È una conversione costante, un ricominciare sempre.
Pur senza vederlo e senza sentirlo, Dio non sarà forse ugualmente presente nella stanza segreta che ha promesso di abitare? Lo attendiamo come un dono, non come una pretesa o come una prometea conquista. Attendiamo il dono di un “cuore nuovo”, di uno “spirito nuovo”, promesso ad Ezechiele: «Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei statuti e vi farò osservare e mettere in pratica le mie leggi» (36, 26-27). Non è questa la condizione posta da Gesù per venire ad abitare nel cuore: amare e osservare la sua parola? È dunque un dono poter aver la stanza degna di essere abitata, ed è un dove che essa venga abitata. È un dono oggetto di una preghiera costante e fiduciosa: «Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo» (Sal 51, 12).
Ogni mattina converrà rivolgersi al Maestro e con la fede del centurione parafrasare le sue parole, così come ci insegna la liturgia: «Signore, non sono degno che tu entri nella mia casa, ma dì soltanto una parola e io sarò guarito» (cf. Lc 7, 6-7).
Ogni mattina conviene rivolgersi alla “Domus aurea”, a quella casa tutta d’oro che è Maria, e invitarla a venire a casa nostra – come fece quando andò ad abitare con Giovanni (cf. Gv 19, 27) – perché prepari la stanza alla venuta del Signore, così come l’aveva preparata nel suo grembo verginale. Se ne intende.
Se siamo abitati da Dio non siamo mai soli e niente può più farci paura. Tutto possiamo affrontare con lui dentro, non c’è ostacolo che possa essere superato, non una meta che non possa essere perseguita e raggiunta. Ci riscopriamo unici, insostituibili, fino a far cadere ogni complesso: amati da Dio, inabitati da Dio! Rinasce la fiducia, la gioia, la speranza, l’entusiasmo, parola questa che, nella sua etimologia greca, significa proprio “dio dentro”.


domenica 28 settembre 2014

È bella, bellissima



Sono stato a Maddaloni nella Giornata dell’ecologia: terra dei fuochi, terra di degrado urbanistico, fatta scempio degli interessi della camorra.
Eppure nasconde tesori di inestimabile valore, dal castello alla basilica del Corpus Domini.
Tra questi un autentico capolavoro, l’opera forse più preziosa che gli Oblati possiedono in Italia. Si contempla nella sala da pranzo della comunità. Già la comunità in sé è un capolavoro: persone anziane che hanno dato la vita per Dio e la sua missione. Pranzo e cena sono allietati da una grande tavola a olio con l’immagine dell’Immacolata, datata alla seconda metà del 1500.
 
Tutto attorno una litania altrettanto bella:
Stella maris
Electa ut sol
Porta coeli
Fons hortus
Tuttis David
Lilium inter spinas
Cedrus Libani
Pulcra ut luna
Speculum sine macula
Puteus acquarum
Plantation rosae
Virga Iesse
Olive speciosa.
È un’immagine bella, bellissima!
Soltanto l’Immacolata può riscattare questa terra.


sabato 27 settembre 2014

I dialoghi a sant’Eustachio

Per i prossimi tre mesi non è più un problema programmare il giovedì sera: già fatto!
Ogni giovedì sera ci aspetta un bel programma nella sala di Sant’Eustachio a Roma (sì, proprio in piazza Sant’Eustachio, dove c’è il famoso caffè).
Per i miei interventi – I luoghi di Dio – mi sto allenando sul blog (bontà vostra).
Siamo tutti invitati.

I LUOGHI DI DIO
IN CERCA DI UN INCONTRO
Dialoghi a cura di Fabio Ciardi, teologo e scrittore

2 ottobre - Desiderio di Dio: un genitivo più soggettivo che oggettivo.
Dialogo con Daniela Notarfonso, medico bioeticista

9 ottobre - Luoghi e tempi inattesi: non diamo niente per scontato.
Dialogo con  Luca Fiorani, Fisico ed esperto di ecologia

6 novembre - Il “tu” di Dio: interiorità ed estroversione.
Dialogo con Sharazade Houshmand, teologa e credente musulmana

13 novembre - Sedersi a tavola con Dio: condivisione di vita.
Dialogo con Heike Vesper, luterana

4 dicembre - Dio in mezzo a noi: in famiglia, nella società, nella Chiesa.
Dialogo con Matteo Zuppi, vescovo a Roma

11 dicembre - L’incontro estremo: dolore e morte.
Dialogo con Adelaide Ricciotti, medico
 
LETTURE TEATRALI E DINTORNI

16 ottobre - Tra tanta gente. Luigi Tenco
concerto-spettacolo con Leandro Amato

30 ottobre - Lettura con Antonio Ianniello

20 novembre - Lettura con Giorgio Marchesi

SERATE A TEMA

23 ottobre - Rilettura di una pagina di storia
La leggenda nera - I Borgia (Ed. Città Nuova)
interviene l’autore Mario Dal Bello

27 novembreProfughi del mare. La parola ai testimoni

18 dicembre - Concerto


venerdì 26 settembre 2014

La stanza segreta / 4 - quando la stanza è vuota

Quando la stanza d’improvviso si fa disadorna e vuota, e rimane deserta?
Può dipendere da noi. Gesù pone infatti una condizione perché la stanza sia abitata: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola…». Se non lo si ama, se concretamente non si segue il suo comando, tutto concentrato nell’amore il nostro prossimo, lentamente ci si svuota… Il rapporto va coltivato amando a fatti e nella verità.
Eppure a volte, indipendentemente da quanto lo amiamo e da quanto osserviamo la sua parola, Dio sparisce. Il colloquio con lui sembra diventare un monologo. «Anche se grido e invoco aiuto, egli soffoca la mia preghiera» (Lm 3, 8). Per Gesù stesso, abituato a dialogare con il Padre, giunge il momento nel quale egli non risponde. Sono sue le parole di Giobbe: «Io grido a te, ma tu non mi rispondi, insisto, ma tu non mi dai retta» (30, 20); sue le parole del Salmo: «Dio mio, invoco di giorno e non rispondi, grido di notte e non trovo riposo», fino a ripetere con esse: «Dio mio, Dio mio, perché anche tu mi hai abbandonato?» (22, 2-3). Colui da cui sgorgava l’acqua viva si trova con il palato “arido come un cuccio”, con la lingua “incollata alla gola” (cf. 22, 16) e grida la sua sete (cf. Gv 19, 28))
Nella stanza nella quale si era fatta presente l’intera Trinità, sembra non esserci più nessuno. Non è più quindi possibile il colloquio. Si ha l’impressione di parlare ad alta voce con se stessi, come i pazzi.
È la notte. Come la sposa del Cantico inutilmente si cerca nella stanza l’amato: «l’ho cercato, ma non l’ho trovato» (3, 1). È il senso del vuoto e della solitudine che prima o poi tutti passiamo.
Non è soltanto l’esperienza dei grandi mistici. Anche nella nostra piccola quotidiana esistenza giungono momenti in cui Dio sembra aver lasciato la nostra stanza ed essersi ritirato lontano, irraggiungibile, disinteressato alla nostra supplica. Dov’è quando muore un figlio giovane, quando si è vittime innocenti di ingiustizie e violenze, quando esplodono le guerre? O più semplicemente perché non mi risponde quando ho bisogno di aiuto nella vita d’ogni giorno e lo prego per il lavoro, per l’armonia quotidiana. Dove trovarlo Dio, se se ne andato di casa e mi ha lasciato solo?
Guai dare facili risposte, perché ci sono risposte facili. C’è il difficile, il duro del Vangelo che domanda di perdere la vita per ritrovarla (cf. Mc 8, 35), la morte dell’uomo vecchio per accedere alla vita dell’uomo nuovo (cf. Rom 6, 6-11), il cadere in terra e morire del chicco di grano perché porti frutto (cf. Gv 12, 24), così come soltanto con la potatura la vita porta frutto (cf. Gv 15, 2). Nei suoi discorsi di addio Gesù l’aveva annunciato: «ancora un poco e non mi vedrete; un po’ ancora e mi vedrete» (Gv 16, 16). Quanto è lungo durerà quel “poco” senza vederlo, senza sentirlo? Quanto dobbiamo aspettare? (continua….)


giovedì 25 settembre 2014

L’accoglienza povera di apa Pafnunzio


Tornava verso la cella, lieto di aver celebrato la santa sinassi con i fratelli.
S’erano radunati assieme come ogni giorno del Signore, il presbitero aveva imbandito la mensa della parola e del pane ed ognuno se ne era devotamente nutrito.
Anche lui aveva accolto il Signore nel suo cuore.
Era stato un momento semplice e bello, come sempre.
Tuttavia, nel cammino di ritorno, gli sembrò di udire la voce del Signore. Gli parlava proprio dal cuore, dove l’aveva ricevuto e lo custodiva.
“Sono venuto in casa tua – gli diceva quella voce – e tu non mi hai lavato i piedi, non mi hai dato un bacio, non hai cosparso il capo di olio profumato, segni dell’accoglienza amorosa. Non basta accogliere. Conta il come. Poiché hai poco amato, poco ti sarà perdonato”.
Era vero. Con quanto poco amore l’aveva accolto, quanta poca dedizione gli aveva riservato, quale mancanza di ospitalità: ed era nientemeno che il Signore! Forse riservava più attenzione ad un qualsiasi fratello che veniva a trovarlo.
Si propose di preparare meglio l’accoglienza la prossima volta che avrebbe partecipato alla sinassi.
Perché aspettare una prossima volta? La peccatrice s’era introdotta quanto ormai non era più tempo per lavare, profumare, abbracciare, eppure con quanta gioia era stata accolta dal Signore. C’è un tempo preciso per lavare, profumare, abbracciare? Non era forse quello?
Apa Pafnunzio si raccolse, trovò ancora presente l’ospite santo, gli dichiarò il suo amore, la sua adorazione, la sua gratitudine. Si sentì rispondere: “Ti sono perdonati i suoi molti peccati, perché hai molto amato”.
Comprese che tutto si gioca nel presente, nella capacità di accoglierlo nel momento, nell’ora. Nella pienezza dell’adesso la pienezza del futuro.

mercoledì 24 settembre 2014

La stanza segreta / 3

Aurora romana, dalla terrazza di casa

Una volta entrati in stanza e chiusa la porta inizia finalmente il colloquio. Si è casa, con il Padre, con il fratello Gesù, con lo Spirito d’amore. Quando si è in casa non occorre fare grandi discorsi. A volte basta una parola, oppure semplicemente stare accanto gli uni gli altri senza dirsi niente: pur intenti ognuno alle sue cose ci si sa vicini, in casa insieme.
Così è la preghiera, un rapporto d’amicizia, come direbbe la grande esperta nel campo, Teresa d’Avila, uno stare a tu per tu con la persona da cui ci si sa amati e che si ama. Non si è in una stanza: questa è soltanto una metafora; si è in Cristo: questa è la realtà vera. La preghiera è “stare” in Cristo, agire “nel nome del Signore” (cf. 1 Cor 10, 31), per amore della persona amata, compiere la sua volontà. Essa diventa così, a sua volta, “luogo” nel quale Dio si fa presente.
Come ogni rapporto, anche quello con Dio ha bisogno di tempo in tempo di essere ravvivato con un dialogo esplicito, fatta di ascolto e di parola.
Lascio a ognuno continuare, secondo la propria esperienza…


martedì 23 settembre 2014

Il sogno di apa Pafnunzio

Aurora romana - dalla terrazza di casa


Sognò di trovarsi nella grotta di Betlemme, dove s’era recato assieme ai pastori, chiamato dalla voce dell’angelo. Trovò, come gli era stato detto, la madre che stava allattando il bambino. Quando ella ebbe terminato si guardò attorno, in cerca di un angoletto dove adagiare il figlio. Si guardò attorno ma non ne trovò nessuno che fosse adatto. Fin quanto posò lo sguardo su di lui.
Apa Pafnunzio vide rivolgere su di sé lo sguardo della vergine madre. Gli bastò quello sguardo per sentire che il cuore si sgombrava d’ogni vanità. Si ritrovò bambino. Fu pervaso come da un fuoco d’amore. Si ritrovò grande, dilatato all’infinito.
Maria gli si accostò e adagiò il figlio sul suo cuore.


lunedì 22 settembre 2014

La camera segreta / 2



Ognuno di noi può essere dunque un luogo di Dio?
Le testimonianze sono innumerevoli. Meister Eckhard scrive che il Padre, generando il Figlio nell’eternità, «lo ha generato nell’anima mia… Egli mi genera come suo Figlio e lo stesso Figlio. Dico di più: mi genera non solo in quanto suo Figlio, ma in questo lui stesso, e lui in quanto me, e me in quanto suo essere e sua natura… È questa una sola vita, un solo essere, una sola operazione» (Opera tripartita, 6). Umanizzazione e divinizzazione coincidono.
«L’anima – scrive nel proprio diario Matilde di Magdeburgo parlando della propria esperienza – si trasforma tutta in Dio e, per modo di partecipazione, pare che ella sia talmente unita a Dio, come ella fosse dentro nel Medesimo, e lì stesse nuotando nel mare infinito del suo divino amore e della sua infinita misericordia. Appunto ella fa come il pesce che sta nuotando nel mare».
Non diversamente Veronica Giuliani narrando una delle sue molteplici esperienze: «La mattina, nella santa Comunione, ebbi un’intima unione con Dio. Quando io dico: intima, è cosa che non si può raccontare. È opera di comunicazione, e si conosce che tutto opera l’amore; e fa che l’anima nostra sia talmente al suo Dio unita, che più inoltrare non può. Ella ben conosce che Esso è il suo centro. Ivi sta tutta assorta, e quasi in riposo. Iddio le vien comunicando Se stesso; le fa capire che Egli è tutto per lei; si dà tutto a lei; ma, nel medesimo punto, è tutto di tutti, e si dà a tutti».


Mentre affermano l’identificazione con Cristo e con Dio i mistici ne affermano la distinzione. Immagini ricorrenti in proposito sono quelle dell’amicizia e del matrimonio. Abramo e Mosè sono chiamati dalle Scritture ”amici di Dio”. Gesù stesso, rivolgendosi ai suoi discepoli, dice loro: «Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l'ho fatto conoscere a voi» (Gv 15, 15). Uno dei primi tra i più grandi scrittori mistici cristiani, Gregorio di Nissa, trova in questa amicizia il culmine del cammino spirituale: «Questa è veramente la perfezione: staccarsi dalla vita di peccato non più per il servile timore di venire punito, né fare il bene per la speranza delle ricompense, mercanteggiando la vita virtuosa con intendimento affaristico e interessato; ma trascurando anche tutti i beni che speriamo di conseguire secondo la promessa, ritenere temibile soltanto il decadere dall’amicizia di Dio e giudicare per noi onorevole e desiderabile solo il divenire amici di Dio» (Vita di Mosè, II, 320)
Se questa è l’esperienza dei santi, che sarà stato della “stanza segreta” della vergine Maria? Cosa vi sarà avvenuto, quale dialogo si sarà articolato, a quale rapporto avrà condotto? Da tutta l’eternità Dio si era preparato il luogo più adatto e degno per venire ad abitare. L’aveva preservato da ogni macchia di peccato e adornato di ogni grazia e bellezza. Mai prima di allora egli si era reso così presente nella creazione come quando il Verbo si fece carne nel grembo di Maria. Ciò che il mondo intero non può contenere si rimpicciolì fino ad essere contenuto dalla Madre. La terrà abbracciò il cielo e lo raccolse in sé. È Maria “il giardino chiuso e la fontana sigillata” con cui il Cantico dei Cantici designa la sposa (cf. 4, 12). Nessuna creatura ha mai conosciuto intimità più profonda con Dio, rimescolamento di carne e di sangue, compenetrazione di volere e di esistenza. Chi può di lei può dire: «Io sono per il mio diletto e il mio diletto è per me» (6, 3)?
Anche dopo aver dato alla luce il figlio, il suo cuore rimane la stanza segreta, lo spazio interiore del raccoglimento nel quale ella “custodisce e medita” (cf. Lc 2,19; 2,51b), continuando il dialogo silenzioso, la lode del Magnificat per tutto quanto Dio compie in lei e attorno a lei, l’immedesimazione di destino e di vita con il Figlio.

domenica 21 settembre 2014

Il sogno di Paolo VI

Oggi la comunità del Movimento dei focolari di Roma si è interrogata su come vivere la comunione a tutto cambio tra i suoi membri e come donare il suo apporto alla città. Non è mancata una fitta condivisione di esperienze positive già in atto.
Nel mio intervento ho ricordato alcuni sogni di Paolo VI, vescovo della nostra città che fra un mese sarà proclamato beato. Sono parole davvero ispiratrici:

«Ecco: un cristiano o un gruppo di cristiani, in seno alla comunità d’uomini nella quale vivono, manifestano capacità di comprensione e di accoglimento, comunione di vita e di destino con gli altri, solidarietà negli sforzi di tutti per tutto ciò che è nobile e buono. Ecco: essi irradiano, inoltre, in maniera molto semplice e spontanea, la fede in alcuni valori che sono al di là dei valori correnti, e la speranza in qualche cosa che non si vede, e che non si oserebbe immaginare. Allora con tale testimonianza senza parole, questi cristiani fanno salire nel cuore di coloro che li vedono vivere, domande irresistibili: perché sono così? Perché vivono in tal modo? Che cosa o chi li ispira? Perché sono in mezzo a noi?»

«Oh come sarebbe stupendo se le nostre parrocchie dimostrassero bene quel che deve essere la società cristiana! E cioè: gente, dapprima sconosciuta, gruppi diversi per costume, educazione, origine, età, ecc., che, trovandosi in chiesa, si rivelano e si sentono nuclei di fratelli. Diventano amici, si danno la mano l’uno con l’altro, non parlano male del prossimo, e cercano, invece, ove c’è un ammalato, di assisterlo, ove un disoccupato, di soccorrerlo, ovunque, in una parola, c’è un’azione buona da compiere a vantaggio del prossimo, aver subito cuore e impegno per dire: ecco che Cristo ci chiama».


sabato 20 settembre 2014

Gli sposi in vespa in Canada



Con Martina siamo a Vancouver in viaggio di nozze, ed abbiamo appena finito di leggere il tuo blog!! Siamo onorati ed emozionati! Che bello!!
Siamo ancora contentissimi, quasi increduli. È stata una giornata pazzesca! Indimenticabile! Grazie di aver partecipato nel renderla unica!
Grazie della tua amicizia e del tuo affetto!
Con la speranza di vederci presto, ti mandiamo un abbraccio dal Canada,
Benedetto e Martina

Non ci posso credere, gli sposini mi scrivono da loro in viaggio di nozze!
Sono proprio loro, “gli sposi in vespa” (non che siano andati in Canada in vespa!)
Chissà come vedono Vancouver.
Io la ricordo una città straordinaria. Vi passai, diretto in Asia, 25 anni fa.
Che impressione trasvolare le Montagne Rocciose con i picchi innevati e i ghiacciai che si susseguono senza più finire. Fino all’apparizione improvvisa, quasi d'incanto, della magica insenatura circondata dai monti e chiusa da isole che accoglie Vancouver e la custodisce come un gioiello prezioso e segreto.
Nel diario di quei giorni leggo di essere stato allo Stanley Park: “Ho camminato per due ore in una autentica foresta. Mi sono dimenticato di essere nella città, non se ne sentono neppure più i rumori.
 E' una foresta autentica, in alcuni punti particolarmente intricata. Gli alberi sono giganteschi. Nel tronco di tronco vuoto di una sequoia possono starci una ventina di persone. Mi sembra il paradiso terrestre. Cammino tutto solo lungo i sentieri, costeggio un laghetto con i castori, torrenti, tutto immerso in abeti, cedri, aceri e le onnipotenti sequoie, mentre gli uccelli mi fanno il concerto. Gli animali, nello loro riserva, sono così ben ambientati nel parco che sembrano allo stato libero: dai canguri agli orsi polari, dai pinguini alle foche. Soprattutto ho dedicato tempo al famoso acquario straordinariamente ricco di ogni specie di pesci e flora marina di tutto il mondo. Non me ne sarei mai andato. Così come non mi sarei mai stancato di ammirare, attraverso i vetri delle gallerie sotterranee, i grandi cetacei, i mammiferi: begulas, killer whales, sea otters, harbours seals...”
Rimasi incantato dalla città, dalle sue strade, dai laghi, parchi… fino a scrivere: “Credevo che Ottawa fosse il massimo come città giardino, ma Vancouver supera ogni immaginazione. Hanno ragione a dire che è la più bella città del Canada”.
Poi la scoperta del mondo Oblato con le sue varie comunità. “La prima chiesa di Vancouver è stata costruita dagli Oblati ed è oggi la cattedrale. Il giorno che sono arrivato a Vancouver giungeva la notizia della nomina del nuovo arcivescovo, un Oblato. Ho visitato la Chiesa del Sacro Cuore, sempre costruita dagli Oblati come chiesa per gli italiani e successivamente passata a tutte le nazionalità fino ad essere, oggi, chiesa degli amerindiani (sono circa 30.000)”.
Infine il 2 giugno 2011: “Corpus Domini. Ho concelebrato nella nostra bella chiesa. Mi ha impressionato l'ultima persona che mi si e' presentata davanti mentre distribuivo la comunione; una ragazza tutta sorridente che mi dice: Non posso ricevere la comunione perché non sono cattolica, ma sono venuta qui in fila con gli altri perché mi dia almeno la benedizione. Così, non senza un po' di commozione, l'ho segnata sulla fronte e le ho imposto la mano. Ho capito di più il valore dell'Eucaristia, che oggi celebriamo”.
Questo qualcosa della mia Vancouver di 25 anni fa… Chissà quante cose belle ci raccontano gli sposini quando tornano.


I luoghi di Dio / 10: la camera segreta / 1


«Quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà» (Mt 6, 6).
L’immagine della camera segreta ha un suo fascino. Richiama il senso dell’interiorità e dell’identità personale, la possibilità di stare se stessi, senza la necessità di mettere la maschera o di recitare una parte. Chi ha la fortuna di avere una stanza tutta per sé, sa quanto sia salutare e riposante entrare, chiudere la porta, e assaporare il silenzio, la pace, la libertà. Può adornarla secondo i propri gusti, che aiutano a ricordare, a pensare, a pregare… Per gli adolescenti di una volta era il luogo dei sogni, dell’elaborazione del futuro, della maturazione. Ce ne ha offerto uno spaccato Nanni Moretti nel film La stanza del figlio.
La stanza di cui parla Gesù è metafora di un rapporto personale, sincero, affettuoso che ogni persona è chiamata a instaurare con Dio. La stanza a cui si riferisce non è quella di un albergo, impersonale e distaccata, ma quella di casa (nei villaggi della Palestina la casa era spesso costituita da una sola stanza), la “tua” camera. Che si tratti della stanza di casa lo dice soprattutto la persona con la quale Gesù invita a parlare: non un estraneo o un conoscente, ma il Padre.
L’invito di Gesù non ha tuttavia a che fare con una stanza reale. Usa l’immagine per stigmatizzare certi atteggiamenti oranti fatti soltanto di esteriorità, motivati dal desiderio di ostentazione. Da quando era partito da Nazareth egli non aveva più stanza né casa, neppure una pietra dove posare il capo. Di notte, al mattino presto, di giorno, era solito uscire in luoghi solitari per immergersi nella preghiera, nel dialogo con il Padre: «Al mattino si alzò quando ancora era buio e, uscito di casa, si ritirò in un luogo deserto e là pregava» (Mc 1, 35); «Congedata la folla, salì sul monte, solo, a pregare. Venuta la sera, egli se ne stava ancora solo lassù» (Mt 14, 23). Era risoluto nel lasciare quanti lo cercavano e avevano bisogno di lui, per coltivare il rapporto con il Padre, comprendere il senso e la modalità della missione che gli era stata affidata, per attingere la forza che lo avrebbe alimentato nella sua opera, la luce che avrebbe espresso nelle sue parole.
È indispensabile, come faceva Gesù, “chiudere la porta” della stanza, avere il suo stesso coraggio di gettare nel Padre ogni preoccupazione distaccandosene, di svuotare il cuore donando al Padre persone e cose, di essere libero per poter stare con lui. I maestri di vita cristiana parlavano di “raccoglimento”…
L’interiorità suggerita dall’entrare in stanza non è il solipsismo egoistico di che se ne vuole stare in pace con se stesso. La stanza non è vuota e solitaria. Vi si entra per uscirne verso un’altra dimensione. Essa si spalanca sul cielo infinito, come accadeva a Gesù quando si ritirava da solo in posti solitari. È il luogo nel quale si può avviare un colloquio fatto di parole o di silenzi, un’intesa, un rapporto di comunione e d’amore.
La stanza, il segreto del cuore, è dunque un luogo privilegiato per l’incontro con Dio, al punto da diventare stabile dimora di Dio stesso, come ha promesso Gesù all’apostolo Giuda: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14, 23).
A Mosè Dio aveva promesso che, una volta costruito il santuario egli si sarebbe reso presente in esso (cf. Es 25, 8), così si rendeva presente nella tenda del convegno (cf. Es 29, 45). Lo stesso ripeterà a Ezechiele (37, 26-27) e agli altri profeti. Adesso Gesù, nella pienezza dei tempi, ci rivela che ogni credente è destinato a diventare tempio e casa di Dio, luogo della sua presenza. «Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi?» (1 Cor 3, 16; cf. 6, 19; 2 Cor 6, 16). Perché andare alla ricerca di luoghi di Dio tanto lontani, quando io stesso sono fatto da Dio luogo di Dio?
Essere inabitato da Dio e poter colloquiare con lui: è il compimento della vocazione umana. Siamo stati creati come il “tu” di Dio, capace di stare davanti a lui in un rapporto personale, diretto, fatto di conoscenza, di amore, di amicizia, di comunione. Io “sono” nel momento in cui Dio mi rivolge la parola e mi rende capace di rispondergli. Gli dico Padre e mi scopro figlio. Sono stato creato per parlare con Dio, per entrare in rapporto con lui. È questa capacità che mi rende persona. È l’acquisizione dell’autocoscienza, il momento dell’umanizzazione. Lo stare a tu per tu davanti a Dio costituisce la mia caratteristica essenziale, è ciò che mi costituisce uomo.

Dio è avvertito più intimo a sé di sé stessi. «Non uscir fuori, torna in te stesso – scrive sant’Agostino –: è nell’uomo interiore che abita la verità» (De vera religione, 3, 72). Poiché il cristianesimo è la «nascita sempre nuova del Verbo nel cuore dei santi» (Ad Diognetum 11, 4), i mistici – ossia coloro che hanno colto e sperimentato il nucleo centrale del Mistero cristiano – sperimentano la trasformazione del proprio essere in Cristo e quindi in Dio. Ad iniziare dall’apostolo Paolo: «Non sono più io vivo è Cristo che vive in me» (Galati 2, 20).

giovedì 18 settembre 2014

Francis Kelly Nemeck, l'uomo della contemplazione


“Lontano dalle luci della città, il cielo è pieno di stelle. Appena una falce di luna, ma basta a illuminare gli alberi magri. Nessun rumore se non quello monotono i grilli, l’ululato del coyote e l’agitarsi delle rade palme mosse dal vento. Sono in pieno deserto, a qualche chilometro da un minuscolo paese, Sarita, tra le città di Corpus Christi e Brownsville, nel Texas. La regione è desertica e solitaria. Acacie, quercioli, cespugli spinosi e un gran bel caldo secco tropicale, con il sole che picchia. I cervi passano tranquilli vicino casa; questa sera è venuta a pascolare un intero branco. I tacchini selvatici sono alti e snelli, lontani parenti di quelli di allevamento. Non ho ancora visto né gli armadilli né i cinghiali. I serpenti per fortuna sono in letargo. In cielo volano solenni i rapaci”.
Era il 13 dicembre 2010 quando scrivevo questa pagina di diario. Mi trovano nell’antica villa del ranch della famiglia Kenedy, che si estende per 400,000 acri e che, assieme al ranch della famiglia King, occupa la maggior parte del Deserto Cavallo Brado, la vasta area di confine tra Texas e Messico. Nel 1961 la villa divenne noviziato degli Oblati e dal 1973 è casa di preghiera. Attorno una quindicina di casette, veri e propri eremitaggi per un’esperienza di assoluto silenzio, di preghiera, di solitudine.

p. Francis Kelly Nemeck
Allora – nel 2010 – vi incontrai l’Oblato p. Francis Kelly Nemeck, che aveva fondato e ancora guidava la casa di preghiera, a cui aveva dato il nome di Lebh Shomea, una parola ebraica che significa “cuore docile”, e si espira alla preghiera di Salomone: “Signore, concedi al tuo servo un cuore docile… che sappia distinguere il bene dal male” (1 Re 3, 9).
Nell’America rumorosa ci vuole un luogo di silenzio e di pace per trovare la via alla contemplazione. E p. Francis era uomo di contemplazione. Così mi diceva: «Dio invita ognuno di noi ad abbandonarsi amorevolmente a Lui, almeno in punto di morte. Le nostre vite sono animate da ricerca di contemplazione, sia che dormiamo sia che vegliamo, sia che lavoriamo sia che preghiamo, sia nell’attività che nella passività. L’attrattiva verso la contemplazione viene dall’azione immediata e diretta nel nostro spirito da parte di Dio che ci conduce inesorabilmente all’unione trasformante con Lui in ogni nostra azione e in tutto il nostro divenire. Personalmente mi ritrovo in un’osservazione fatta nel 1924 dal padre Teilhard de Chardin: “Che io sia nell’azione o che preghi, che io dischiuda il mio spirito con il lavoro, o che Dio lo invada con le passività, dal di fuori o dal di dentro, io ho coscienza di unirmi... Del resto, io sono in Cristo Gesù; e solo dopo agisco, soffro, o contemplo”».
Pochi giorni fa è partito per il Cielo. Adesso è in piena contemplazione.


mercoledì 17 settembre 2014

Ettore Andrich: la leggenda continua

Mi scrive una "follower":
Sì, è proprio vero quello che dici!
Persone così restano per sempre vive!
La sera del 12 settembre, insieme alle lacrime che scendevano a fiumi, per l'immensa gratitudine per il dono che p. Ettore è stato nella mia vita, in questi anni trascorsi a Firenze, sono sgorgate delle parole dal cuore, che ho sentito di dover scrivere subito! la una melodia ha continuato a rimanermi in testa: un dono, perché non so scrivere né leggere musica, né suonare!
All'inizio mi pareva di dirle a lui, ma poi mi sembrava che p. Ettore parlasse con Gesù! E Gesù con lui!

Parlo con te e canto
Canto con te, col sorriso e nel pianto!
Vivo con te e tu in me!
La Vita riaccendi, mentre tu ti spegni.
 
Non si fermerà questa volontà
di incendiare il cuore dell'umanità!

E' l'Amore che tu riversi in me:
io l'accolgo e già accolgo te!

Niente mai potrà più dividerci:
unica realtà, nuova Umanità!

Penso che p. Ettore me le ha suggerite, come a dire " Vivo! "

Mi scrive anche Renzo Andrich e mi manda due miei schizzi degli anni Settanta (due tabià, i fienili caratteristici), che mi riportano nella Vallada tanto amata da Ettore, da me, da tanti.

martedì 16 settembre 2014

Il valore dell’amicizia


Appena arrivato a Genova per il matrimonio Santolini (vedi http://fabiociardi.blogspot.it/2014/09/gli-sposi-in-vespa.html), lo sposo mi ha mostrato la foto di tre amici: lo zio è quello a destra. Tornando, anch’io ho trovato una lettera dello zio Giovanni, che sembra ispirata alla foto. Mi scrive:

8 maggio 1992.
Carissimo Fabio, Ti scrivo rapidissimamente per ringraziarti per la tua amicizia, non sai quanto faccia piacere e come possa sostenerti il fatto di sapere che hai dei fratelli che in qualsiasi parte del mondo e in qualsiasi momento sono pronti a dare la vita per te. Molte volte che mi sento solo o che mi sembra che nessuno mi capisca, mi dico, se Paolo o Fabio fossero qui, loro mi capirebbero, solo il fatto di stabilire questa unità rapida, mi da la forza di continuare e di dire che ne vale la pena. Non è necessario fare qualche cosa di speciale, basta cercare di vivere e so che il momento che ci incontriamo, come è successo ultimamente, ci ritroviamo immediatamente in sintonia anche senza dire molte parole e senza fare lunghi discorsi. Per questa esperienza volevo ringraziarti e anche per quello che fai».
La lettera termina con queste parole:
Oggi è il decimo anniversario della mia ordinazione, questa mattina ho pregato che il Signore mi tenga sempre una mano sulla testa e che possa essere sempre fedele ai doni immensi che mi ha dato. Voglio continuare a donare la vita per I'Ut onmes e per I'ideale. Prega per me. Giovanni


lunedì 15 settembre 2014

Ettore Andrich, una leggenda


Abbiamo vissuto insieme per un anno a san Giorgio Canavese, nel 1968-69. Io studentello di filosofia e lui all’ultimo anno di studi. Nell’estate del 1968 eravamo stati insieme sulle Dolomiti, tra le sue montagne. Non aveva ancora la barba ed era un giovanottino come noi. Spensierato, poeta, con la musica nel sangue: un artista. Sognatore, sempre incantato, perennemente innamorato, sempre insoddisfatto e quindi sempre proteso in avanti. Già allora nasceva la sua leggenda, che è venuta arricchendosi col volgere degli anni.

Ettore Andrich se ne andato il 12 settembre, festa del nome di Maria, e oggi, festa di Maria Addolorata, nel 51° anniversario della sua Oblazione, abbiamo celebrato il funerale nella sua Oné di Fonte, la chiesa gremita all’inverosimile da persone provenienti da tutta Italia.
Ma persone come Ettore non muoiono mai. Rimangono.


domenica 14 settembre 2014

Gli sposi in vespa



Ad aspettare gli sposi fuori della chiesa non c’era la solita limousine o una bella auto bianca. Gli sposi hanno inforcato una vespa e sono partiti in giro per Genova seguiti da una settantina di coppie anche loro con le vespe. Roba da “Vacanze romane”! Sarebbe potuto essere diverso per un Santolini che si sposa? Con otto zii e zie, più uno in cielo, si può immaginare la selva di cugini e cugine…

E poi gli amici, tantissimi come si meritano ragazzi in gamba. Li hanno saputi coinvolgere e rendete attentissimi alla celebrazione liturgica. Si sono infatti costituiti in grande coro, con strumenti musicali e tantissime prove, visto che sono abituati a cantare soltanto “Forza Genova” allo stadio.
Chissà come se la rideva lassù lo zio Giovanni, che tutti ci lega in un’unica famiglia. Uno zio missionario che muore sul campo, in Congo, e poi uno zio come lui, non può rimanere vivo nel cuore di tutti, primo fra tutti in quello di noi suoi amici.
Martina e Benedetto, auguri!


sabato 13 settembre 2014

La cultura è un bene superfluo?



Sono appena riemerso da un tuffo nel passato che mi ha portato indietro di oltre duemila anni. Strato dopo strato, l’antico sito di San Sisto Vecchio mi ha mostrato i mosaici della villa romana, le colonne della basilica paleocristiana, la sala capitolare di san Domenico, gli affreschi due-trecenteschi di Pietro Cavallini recuperati da vecchie intercapedini e ancora inaccessibili al pubblico a causa dell’arresto dei restauri per mancanza di fondi, oltre che per le solite imbrigliature burocratiche.
Mi basta riaccendere il cellulare per vedere apparire sul display le solite news telegrafiche che mi risvegliano dal sogno: nuovi massacri su vasta scala e altri di portata domestica, nuovi sbarchi e naufragi di profughi, l’innalzamento dell’indice di disoccupazione e il calo di quello dei consumi… Per un momento mi sento quasi in colpa. Davanti a situazioni così drammatiche posso ancora permettermi di gustare la bellezza del nostro patrimonio artistico e ripercorre l’affascinante storia dei nostri antichi con le loro straordinarie avventure?
Nei momenti di crisi, soprattutto di natura economica ma anche politica o valoriale, la prima mossa è il taglio delle spese per la cultura: prima vivere, poi filosofare. Gli investimenti, familiari e pubblici, si fanno più selettivi a scapito di quella voce generica che è appunto la cultura. Si chiudono biblioteche e musei, librerie e case editrici, teatri e cinema.
Ma è davvero superflua la cultura? Tante manifestazione di violenza mi sembrano proprio il sintomo di mancanza di cultura, di imbarbarimento. I guerriglieri di Boko Haran, che ripudiano i libri occidentali, hanno mai letto un libro della grande letteratura filosofica, mistica, poetica musulmana? I giovani dell’Occidente che si arruolano tra i mujaheddin hanno mai visitato la Grande moschea di Cordoba o la Cappella Palatina di Palermo? Gli arricchiti esosi e spendaccioni di casa nostra sanno cos’è il mecenatismo. Quanti sgozzano moglie e figli hanno mai letto Kahlil Gibran, Rabindranath Tagore, Pablo Neruda, Francesco Petrarca? Meglio una pizza in meno e un libro in più.

È promuovendo e coltivando la cultura che possiamo sperare creatività in politica e in economia, rinascita di etica sociale, gusto per l’impegno nella ricerca. “La bellezza salverà il mondo” non è soltanto una bella frase retorica.

venerdì 12 settembre 2014

Il nome di Maria e Maria Voce




Quando il 12 settembre 1683 Giovanni Sobieski con i suoi polacchi sconfisse i Turchi sotto le mura di Vienna (la minaccia era quella dell’invasione della cristianità), la vittoria su attribuita a Maria, il cui nome era stato invocato da tutti i cristiani. Il papa Innocenzo XI volle che in tutta la Chiesa si celebrasse in quel giorno la festa del Nome di Maria.
A Roma si costituì subito una Arciconfraternita del Nome Santissimo di Maria, a cui nei secoli aderirono papi, imperatori, nobili… Dopo vari spostamenti nel 1700 costruirono, vicino alla colonna Traiana, una bellissima chiesa dedicata proprio al Nome di Maria, dove collocarono una ancor più bella immagine della Madonna (anche questa dipinta da san Luca) proveniente dalla chiesa vicina di san Bernardo andata in rovina.
Oggi vi ho messo piedi per la prima volta. La chiesa era in festa, gremita di gente ordinaria, di “arciconfratelli” con le divise bianche e azzurre dei tempi andati, di persone di alto rango… La bella icone della Madonna se ne stava lì, tranquilla, nell’atteggiamento di abbracciare tutti, perché tutti figli suoi, al di là delle fogge e dei titoli.
Sono andato per rendere onore al Nome di Maria e per pregare per Maria Voce: insieme oggi celebrano l’onomastico. Mi sembra un bel segno che la Presidente dell’Opera di Maria sia stata eletta proprio nel giorno del Nome di Maria: auguri!